Grigio (Sampdoria-Carpi 5-2)

Il primo teatro. La prima stecca

Il primo teatro. La prima stecca

Una vecchia canzone recitava che “la prima volta fa sempre male, la prima volta ti fa tremare” ed anche se il soccer nulla c’entrava con le farneticazioni eroinomani di Giovanni Lindo Ferretti possiamo dirci tranquillamente che la prima volta ha fatto male. Serve però essere onesti: quanti possono dire che la prima volta sia andata bene? Sempre bene? E non solo la prima dai, talvolta si stecca la terza, la quinta, oppure la centesima. Tu, in fondo alla fila, non fare il furbo: tu ne stecchi due su tre ogni volta. Ma la prima, si sa, ha tutto un suo fascino che riempie di emozioni a volte troppo grandi per essere gestite. E se la prima volta è nello stadio italiano più inglese che ci sia essere divorati è un attimo, trasformare un incubo in realtà diventa un passo fin troppo semplice da compiere, come un intervento in scivolata impulsivo e fuori tempo che causa quella piccola crepa che poi, goccia dopo goccia, aprirà una grossa voragine che farà definitivamente crollare la diga.

Nella domenica finora più importante nella storia del calcio carpigiano non ne va bene una ed hai voglia a star lì a pensare con ottimismo al futuro: quando guardi il calendario pensi che il tuo campionato possa iniziare dopo la metà di settembre ma, al tempo stesso, temi che tutto possa essere già compromesso se il morale cola a picco e il gruppo si scioglie come quei mucchietti di neve sporca che di tanto in tanto fanno ancora capolino sul ciglio della strada quando la primavera apre le porte.

Di un 5-2 (subito) non c’è molto da raccontare e il risultato porta con sé una storia che non esiste in una domenica emozionante, passata tra lo scorrere dei chilometri, della birra e le spiegazioni che devi dare allo storico barista del Cabassi sul fatto che i tuoi genitori non ti hanno dato un brutto nome, quello era solo un soprannome ormai passato alla storia. Il delirio è tale che nel settore ospiti ormai riconosci gente che non c’è, saluti gli sconosciuti e vedi facce di gente che eri convinto di aver visto l’ultima volta sul “ricordino” di un defunto. Eppure è tutto vero. Dalla prima scivolata in quattro anni del giovane Gaetano Letizia che crea una danno inimmaginabile dopo solo sei minuti, alle 5 sberle che in 37 minuti ti piovono in faccia mentre pensi che bastino due barricate su Eder e Muriel per stare un po’ tranquilli, mentre questi due sembrano Zico e Maradona schierati insieme in qualche puntata dei Simpson. E il portiere della tua squadra, ovviamente, è Homer.

Homer, con la maglia numero 1

Homer, con la maglia numero 1

Genova è così, la città che desideravi per la prima, che ti cattura con le sue costruzioni in salita a difesa dall’alto dell’immenso porto mentre il grigio, il suo colore forse più naturale, copre il cielo di magia e la tensione comincia a prenderti in tutte le parti del corpo. E’ l’esordio di tutti, dei 500 ragazzi e uomini, donne e bambini, che salpano verso la capitale dei mari sapendo che a Genova nulla è mai banale o scontato, come per il più grande poeta cui ha dato natale, quel Fabrizio De Andrè che di ingiustizie e disfatte ne ha raccontate tante, robe troppo grandi per una partita di pallone che in quel momento per noi sembra tutto e che, comunque, nemmeno lui saprebbe come descrivere in versi. In realtà è solo un’ora e mezza, solo un gioco, solo 22 scimpanzé in mutande, ma è tutto così dannatamente importante.

Invece non hai nemmeno il tempo di assaporare il calcio giocato che già devi inseguire, come se la Sampdoria salisse in cattedra a mo’ di maestrina a spiegarti che sarà così tutto l’anno: inseguire, rincorrere, con la lingua fuori e l’orgoglio sulla punta del naso per cercare di essere meglio almeno di altri tre alunni. Soltanto tre: non uno di più, non uno di meno. Di una partita così non puoi raccontare niente, se non le ingiustizie del calcio moderno, vittima di burocrazie e leggi che ti impongono il supplizio per tutti e 90 i minuti quando tu già vorresti fuggire via da quella “gabbia”, da un bar che sembra una cella di isolamento, da bagni scomodi e puzzolenti e ti senti in trappola, ostaggio di una storia che non è la tua o, almeno, non è quella che avresti scritto tu. Finisce che non trovando il Viperetta in giro, a quel paese ci mandi quel ragazzino lontano lontano, là in quella Gradinata Nord che non è casa sua e che ancora non sa quanta polvere ha da mandare giù per potersi sentire un minimo fiero di 600 chilometri fatti solo per per esserci. Non per vincere né per sapere come va a finire. Per esserci.

Esclusa comunque l’ipotesi di un intervento dei Caschi Blu che recuperasse quelli che ormai puntavano alla fuga dopo venti minuti (pochi in realtà, uno di sicuro), le menti di tutti si risintonizzano su una partita che poi scivolerà lentamente verso il nulla, sobbalzando per un gran gol di Matos (già 3 gol in 2 gare ufficiali di cui 2 deliziosi) e per un rigore sbagliato che non lascia più amaro in bocca ma, al contrario, rende forse più cattiva la voglia di tornare in campo.

La prima volta.

La prima volta è così e c’è sempre una buona scusa. Spesso cinque buone scuse. Cara…

– ero stanco (Eder)

– sono stressato (Muriel)

– fuori fa troppo caldo (Muriel)

– ho un fottuto mal di testa (Eder)

– troppi preliminari, ma il secondo tempo andrà meglio (Fernando)

Grazie.

Il secondo tempo non può andare peggio per una infinita serie di ragioni, prima tra tutte che chi ti ha rifilato cinque calci in culo non rischierà infortuni per dartene altri cinque, non è un incontro di pugilato a più riprese, in questo stupido giochino, se ne fai 5 hai buone opportunità di aver chiuso il giro. Il secondo tempo rimbomba ovunque, nei corridoi di uscita dal Ferraris, negli autogrill cui mancano i panini e certa gente sclera minacciando di chiamare il Gabibbo (sì, quel coso rosso che parla genovese), nelle interviste tutte uguali del dopo partita.

Ci vorrebbe un supereroe per risolvere ogni problema.

Ci vorrebbe un supereroe per risolvere ogni problema.

Il secondo tempo in realtà non rinfranca perché è una cosa a sé stante. Non un altro film, non una storia completamente diversa, ma un’altra roba, fatta perché lo impone il regolamento ma che scorre su pscicologie e pensieri differenti. Niente da scrivere e nessun vero pensiero, in una notte senza stelle e con tanta pioggia, di quella che solo Genova a volte riesce a far venir giù. Nessuna magia e nessuna emozione da immortalare, nemmeno il primo immenso, storico gol nella massima serie, salutato da un piccolo grande boato ma inserito nel buio che c’è tutto intorno. Pensi che allora tanto vale aggrapparsi agli immortAli, azzerare il mercato e ripartire dalla vecchia squadra, pensi a Cico Concas che pochi metri più in là, probabilmente più anonimo che mai, sta osservando la disfatta di quella che era la sua corazzata. Sai che di immortale, quest’anno, non ci sarà davvero nulla. Ma sai anche che ti potranno togliere la Serie A ma non il sorriso ebete che avevi quando sei entrato al Luigi Ferraris incontrato gente che, a 50 anni, si aggirava per le scala con lo sguardo di un bambino per la prima volta a Disneyland.

E allora pensi che ti sei divertito, tutto sommato, che non ha senso essere tristi, che forse sarà triste tutta la stagione, ma che hai visto il Carpi a Marassi, il Carpi in A. E allora pensi all’Inter. E a quello strano personaggio chiamato Destino che domenica prossima scenderà in campo.

Siam venuti

Siamo venuti

Siamo venuti a vincere!

Vincere!!!

Ultras Carpi dalla “Gabbia” ospiti dello stadio Luigi Ferraris di Genova sul 5-1 per la Sampdoria – 23 agosto 2015

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