Il 2016 sportivo dalla A alla Z

Ed eccoci finalmente arrivati al momento più atteso dell’anno per i lettori di QCP, la mitica sintesi di tutto ciò che di sportivo è avvenuto nell’anno che sta per finire in un completissimo indice facilmente consultabile grazie al nostro metodo brevettato: l’ordine alfabetico. Solo sul nostro sito vi è infatti possibile ripercorrere gli eventi che più hanno emozionato, sorpreso, deluso nel 2016. Chiaramente, visto che l’alfabeto si riduce a 26 lettere, più che ripercorre un intero anno, cerchiamo di ripercorrerne il meglio e, probabilmente, nel 2017 cambieremo il titolo, in accordo col caporedattore che non siamo riusciti a contattare in questi giorni causa bagordi natalizi (noi della vecchia scuola utilizziamo ancora il telefono fisso per le chiamate importanti).

Introduciamo questo articolo mentre la stampa mondiale ci informa delle novità sulla misteriosa, e prematura, morte di George Michael. È stato un anno di grandi perdite nel mondo della musica ma, come ben saprete, anche nel mondo dello sport abbiamo vissuto addii eccellenti. Come vedremo dalla prima lettera (SPOILER – se vuoi leggere evidenzia col cursore la riga dopo i due punti, se vuoi fare come Lapo sniffala, anche se su monitor è difficile: la “A” sta per “addio” e “Muhammad Alì” che è morto, quindi ci ha detto addio, capite quanto siamo geniali in redazione?) il 2016 sportivo è stato un anno malinconico: ci hanno lasciato tante stelle dei nostri amati sport, alcuni hanno lasciato la vita terrena, altri hanno semplicemente posto fine alla loro carriera, un momento comunque sempre carico di emozioni e ricordi. Alcuni momenti sono semplicemente stati di una tragicità che ci ha tolto i soliti schemi, ha scombinato le carte, ha fermato per un attimo i nostri sorrisi. Per questo dedichiamo il 2016 al “Grande Addio”, momento carico di sentimento e significato, momento quasi mai felice. Momento che, prima o poi, arriva per tutti. Buon anno.

A – per chi non ha letto lo spoiler nell’introduzione: la prima lettera sta per Addio, il termine ultimo, il saluto definitivo, eterno e grazie per i bei ricordi. Apriamo la storia del 2016 nella nostra sintesi celebrando l’addio, perché tanti saluti abbiamo dato, in questo anno che corre via, da quelli tragici legati alla scomparsa di vecchi eroi dello sport, a quelli commoventi e da copione hollywoodiano che riempiono la cronaca senza alcun risvolto luttuoso. L’addio come momento ultimo di una carriera straordinaria, evento carico di energia interminabile, di ricordi, di commozione. Scende infatti persino qualche lacrima, forse perché ci si sente sempre troppo vecchi, se l’addio allo sport lo danno Kobe Bryant, Tim Duncan e persino l’immortale Peyton Manning, che vince il secondo anello quando meno te lo aspetti, nella stagione per lui più dura, e poi tanti saluti. Saluta persino Nico Rosberg, lascia la F1 dopo averla conquistata; giovane e sul tetto del mondo dice basta, perché è un attimo, a 300 all’ora, un attimo che vola via. E tanti altri addii che ci sfuggono o di cui parleremo più avanti. Ma siamo alla lettera “A” e ai saluti, quindi non ci può sfuggire l’ultimo saluto ad Ali, Muhammad Ali, nome uscito dal battesimo islamico di Cassius Clay: due nomi, due vite, una sola infinita carriera ed una interminabile ribellione al sistema. Se ne va a 74 anni uno dei più grandi simboli dello sport mondiale, forse il miglior pugile di sempre, certamente il più celebre. Icona della lotta al fianco degli afroamericani, boxeur e militante, ha unito la propria immagine alle imprese sportive (olimpionico e campione del mondo) così come alle proprie proteste contro il razzismo della società occidentale e contro l’intervento militare degli USA in Vietnam. Il suo ultimo gesto da sportivo fu l’accensione della fiaccola olimpica ad Atlanta 1996 quando, come ultimo tedoforo, diede il via ai giochi con il corpo vistosamente martoriato dagli effetti del Parkinson. Combatteva il morbo dal 1984, unico avversario ad averlo realmente piegato, pur senza spezzarne mai la volontà e, certamente, senza intaccare minimamente il ricordo che il mondo avrà per sempre di lui come guerriero. Il fato ha voluto che proprio venti anni dopo Atlanta, in un’annata olimpica, Ali ci dicesse addio. In silenzio, ha spento l’ultima fiaccola.

B – lo avevamo ricordato anche nell’alfabeto del 2015 o, meglio, lo aveva annunciato lui nel novembre di un anno fa, con una lettera inviata direttamente al suo sport: la pallacanestro. Kobe Bryant, a proposito di addii, lascia il basket, mentre la nostra gioventù si infila definitivamente in un cassetto. La guardia che ha legato tutta la propria carriera ai Los Angeles Lakers dice basta dopo 20 stagioni, 1346 presenze (più 220 ai playoff), 33643 punti (5640 da aggiungere in post-season), cinque anelli e, visto che non guasta, due ori olimpici. La NBA resta orfana di uno dei più grandi talenti di sempre e, come lei, il basket mondiale. Fenomeno in grado di spaccare in due la critica fin dagli esordi è riuscito a costruirsi una carriera che noi non metteremmo insieme neanche a NBA Live, uscendo dall’ombra di Shaquille O’Neal e del primo trittico di titoli, per diventare unico e solo Re della Città degli Angeli in versione nuovo millennio. L’addio è roba che Hollywood può prendere lezione e vedere se gli riesce di evitare l’ennesimo remake, reboot, restart: una lettera strappalacrime e una sequela di file che si aprono nella nostra memoria e, in un attimo, ripercorrono vent’anni di assist, tiri e canestri, di rabbia e passione, di gioia e sconfitta. Vent’anni di Kobe Bean Bryant da Filadelfia, ma anche un po’ da Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. E tutti i palazzetti americani, ma proprio tutti, che di volta in volta si lasciano andare ad infinite standing ovation. Un addio lungo 82 partite, una celebrazione che va oltre ogni retorica.

C – doveva essere un’altra storia. In questa lettera avremmo voluto parlare della Chicago che vince alle World Series, era già tutto pronto, tutto scritto. Ma il 2016 è anno di addii anche tremendi, spaventosi, inattesi. La C è per la Chapecoense, piccola squadra brasiliana che in poco più di un lustro stava riscrivendo a suon di promozioni e vittorie l’intera storia del club. La magia era ad un passo, con la finale della Copa Sudamericana conquistata ai danni di vittime illustri, come il San Lorenzo battuto in semifinale dopo che i ragazzi di mister Caio Junior avevano già eliminato l’Independiente agli ottavi. Il 28 novembre 2016 l’aereo che porta la squadra verso il sogno si schianta al suolo. Muoiono 71 persone, la squadra del Chapecoense svanisce nel nulla. Si salvano tre giocatori, più otto della rosa che non erano convocati. Come il Grande Torino, come il Manchester United di Matt Busby: il cielo li ha vinti con infamia senza concedere rivincita. Su proposta dell’Atletico Nacional, l’altra finalista, la CONMEBOL ha assegnato la Copa Sudamericana alla squadra che non c’è più, un trofeo che non vale nessuna delle vite spezzate dal disastro, un trofeo che porterà per sempre con se il sogno mai realizzato di una vittoria mai veramente giunta, che porterà per sempre il peso del ricordo di un aereo che si frantuma insieme alle vite dei passeggeri, ai sogni, alla vittoria.

D – la lettera D la utilizziamo per Daniel John. Un anno fa parlammo della grande stagione e della splendida impresa all’Augusta Masters di Jordan Spieth, talento emergente del golf mondiale. Stavamo di fatto riempiendo di nuovo pagine su pagine per illustrare il back to back del ragazzo americano quando, quest’ultimo, ne comincia a combinare di davvero grosse. Avanti di cinque colpi alle ultime nove buche realizza una serie spaventosa di birdie e, alla buca 12, con Par di 3, spara la palla due volte nell’acqua, chiudendo con un “quadruplo” bogey. Un disastro. Ne approfitta lui, Daniel, meglio noto come Danny Willet, inglese di 29 anni che non aveva mai vinto un torneo nel PGA Tour (ma quattro tornei dell’European Tour), figuriamoci un Major. Anzi, ai Major era già tanto trovare una sua iscrizione, di tanto in tanto. Ad Augusta 2016 ci è arrivato in forma, dopo aver vinto, a febbraio, in quel di Dubai il Desert Classic; ma il merito maggiore va a Spieth e al suo tentativo di chiudere il torneo dopo essersi fatto un goccetto di troppo alla Clubhouse dell’Augusta National Golf Club. Com’è, come non è, il prossimo anno il menù della serata di presentazione dell’evento 2017 sarà scelto da lui, da Danny Willet: fish and chips per tutti, fegatino per Jordan Spieth. Bravo Danny: per uno che giocava il Masters per la seconda volta ed era arrivato 38° l’anno prima è un discreto passo avanti. Mai smettere di sognare, mai dire addio alla speranza.

E – Le tradizionali competizioni estive diventano ogni volta più deludenti. Giocare europei o mondiali di calcio al termine di stagioni sempre più lunghe ed estenuanti porta il livello dei tornei per nazionali, spesso, ai minimi storici. Non fa differenza Euro 2016, il campionato europeo più rappresentato di sempre (24 nazioni) non lascerà il ricordo di un grande spettacolo calcistico anche se, alla fine, grazie a qualche impresa e alle classiche “squadre simpatia” lascia comunque qualche scatto indelebile. È il caso dell’Islanda, con il suo Geyser Sound, che arriva fino ai quarti di finale, dove esce battuta dalla Francia, ma dopo aver eliminato alla grande la nazionale inglese (3-1 ai quarti). O delle piccole nazioni britanniche di Irlanda del Nord (ottavi) e Galles (addirittura semifinale). Bene anche l’Italia di mister Conte, che vince il girone battendo Belgio e Svezia ed elimina con una prova di altissimo livello la Spagna agli ottavi (2-0). Alla fine gli Azzurri cedono alla più forte Germania, riuscendo comunque a portare i campioni del mondo ai rigori. In finale ci arrivano i padroni di casa, la Francia, e il Portogallo. È indubbiamente l’anno di Cristiano Ronaldo, che si fa male dopo pochi minuti e “gioca” il match dalla panchina come il più navigato degli allenatori (o almeno così piace pensarla, soprattutto ai suoi fan). La coppa la portano a casa i lusitani, che nei 90 minuti regolari riescono a vincere solo una partita in tutto il torneo, la semifinale contro il Galles (2-0). Per il resto lo score parla di ripescaggio nel girone (terza con tre pareggi), per poi approfittare del suicidio croato agli ottavi (1-0 al 120°) e sconfiggere ai rigori la Polonia nei quarti. In finale, coi Bleus, ancora supplementari e ancora vittoria. Cristiano Ronaldo, di fatto, porta la sua nazione dove nemmeno Eusebio era riuscito. E ci riesce anche grazie a Ricardo “Trivela” Quaresma, la parte più folle di questo folle torneo.

F – In Italia abbiamo tante magnifiche città, tante opere d’arte sparse su tutto il territorio. Chiese, battisteri, musei, edifici storici che riempiono le piazze dal paesino più piccolo sino alle metropoli, simboli della nostra storia e della nostra cultura che non c’è più (in tutti i sensi). Tra queste Firenze è uno dei gioielli più preziosi che abbiamo, col suo meraviglioso centro storico, un piccolo gioiellino incastonato nel cuore di una città che ha dato i natali, tra gli altri, a Dante Alighieri, Niccolò Machiavelli, Vittorio Cecchi Gori e Matteo Renzi. Insomma, Firenze è famosa per un sacco di cose: l’arte, la musica, il cinema, la cucina. Di certo non è famosa per il rugby e, forse, non lo sarà mai. Ma di una cosa siamo certi: l’impresa compiuta dall’Italrugby all’Artemio Franchi di Firenze non verrà dimenticata così presto dagli appassionati. Il 19 novembre l’Italia batte il Sudafrica 20-18 in una partita che resta memorabile per la sofferenza e per quei minuti finali che sembrano non scorrere mai verso lo zero. Per la prima volta nella storia gli azzurri battono una squadra di “prima fascia” che non sia una europea (avevano già vinto almeno una volta contro tutte le squadre del 6 Nazioni tranne l’Inghilterra) o l’Argentina (sconfitta 5 volte, considerando anche le epoche in cui i Pumas non erano una superpotenza). Era “solo” test match, ma considerando che nel rugby le amichevoli non esistono, questa vittoria contro una storica nazione del fu Tri-Nations assume i contorni dell’impresa epica e quasi irripetibile. Verrebbe da dire “e ora sotto con gli All Blacks” ma preferiamo placare gli istinti.

G – come Golden State Warriors. L’allegra brigata di Stephen Curry decide di difendere il titolo dominando il campionato di basket americano noto come National Basketball Association. Il record finale della stagione regolare è impressionante: 73-9, 89% di gare vinte, record assoluto NBA, battuto il quintetto dei Bulls guidato da un certo Michael Jordan (che chiusero 72-10). C’è una differenza non da poco tra le due squadre: mentre i Chicago Bulls chiusero la stagione dei record vincendo il titolo, per i GS Warriors il record rimarrà una grande impresa fine a sé stessa: LeBron James e i Cleveland Cavaliers rimonteranno il passivo di 3-1 nelle Finals e si porteranno a casa il titolo. Ma questa è un’altra storia. Ciò che fa la differenza, al netto dell’impresa di LBJ e soci, è il modo in cui i Warriors hanno bruciato un sacco di energie per arrivare ad un record che vale ormai solo per gli almanacchi, soffrendo poi in maniera assurda negli ultimi due turni di playoff, quelli che, visti i livelli in campo, puoi quasi sempre prevedere dall’inizio che non dureranno mai meno di 6 gare. Come diceva quel tale? Chi troppo vuole…

H – Quando Hoàng Xuan Vinh ha piazzato nel centro del bersaglio l’ultimo colpo disponibile, concludendo al primo posto la gara olimpica di tiro a segno con la pistola (dieci metri), l’esultanza in redazione a Quel Che Passa è sfociata in un boato che nemmeno il Santiago Bernabeu per un gol vittoria al 90° contro il Barcellona. La redazione è esplosa per il primo oro olimpico nella storia del Vietnam, notizia di per sé abbastanza inutile per noi italiani, ma sufficientemente storica per essere inserita in un contesto come questo. Di Xuan Vinh non sappiamo nulla, del Vietnam sappiamo che c’è stata una terribile guerra tanti anni fa e siamo contenti che oggi arrivino queste piccole rivincite, anche sportive, per il paese asiatico. Certo, se Xuan Vinh di nome si chiamasse Ugo sarebbe un idolo comunque, nel suo paese, ma qua non troverebbe spazio (alla U c’è un certo Usain). Invece si chiama Hoàng e questo spiega l’esultanza… con la H ci veniva in mente solo Hotel California degli Eagles (che comunque , nel 2016, ha compiuto 40 anni). Forza Hoàng! O Fozza Inda! Se preferite…

Dedico questa medaglia alla lettera H

I – come imbattibile, o insuperabile se volete. Gianluigi Buffon, probabilmente il più forte portiere di sempre, sicuramente il miglior Pallone d’Oro a non aver mai vinto il Pallone d’Oro, stabilisce il record di imbattibilità per la Serie A strappandolo al meno talentuoso Sebastiano Rossi, uno che il primato lo aveva costruito certamente più sulla solida difesa che sulle proprie capacità. Dal gol di Antonio Cassano al 64° minuto di Sampdoria-Juventus (1-2) del 10 gennaio, al gol di Andrea Belotti su rigore al 48° del derby della Mole (4-1 per i Bianconeri) del 20 marzo, passano esattamente 974 minuti. Una infinità.

J – non poteva non essere la lettera di LeBron James, il Prescelto, il più forte di tutti, il Re, il più sopravvalutato, antipatico, quello che organizza pagliacciate come The Decision e poi fa anche i seguiti, quello che fa passi ogni volta che ha la palla… Amato e odiato alla stessa intensità dai due poli di pubblico contrapposti alla fede nel LeBenronesimo, il numero 23 dei Cavs compie un’impressa che definiremmo “grossa”. Molto grossa. Troppo grossa, una di quelle che i poli contrapposti diventano uno solo e, per una volta, si fondono in un solo lunghissimo applauso di ammirazione. LeBron James porta, quasi da solo (questo va scritto per contratto), la sua Cleveland sul tetto della NBA; è la prima volta che i Cavs ce la fanno e lo fanno in modo stratosferico. Sotto 3-1 nelle Finals con due gare da giocare in California contro la strepitosa macchina da record di Golden State. Al netto del crollo degli stremati Warriors (inseguire a tutti i costi il record di vittorie in regular season ha bruciato molte energie, tutte quelle che sarebbero servite poi nella quattordicesima gara consecutiva di playoff, dopo una serie a 7 anche in finale di Conference) l’impresa che si compie sotto gli increduli occhi del pubblico entra probabilmente di diritto tra le migliori cinque imprese di sempre nella storia NBA, con i Cavs che diventano la prima squadra a vincere gara 7 delle Finals in trasferta dopo i Washington Bullets del 1978. In tutto questo LeBron James si mette in mostra come il classico “uomo solo al comando”, segna almeno 40 punti in due gare di fila (la 5 e la 6), realizza 7 triple doppie (c’era riuscito solo un certo Magic Johnson) e porta a segno “The Block”, la possente stoppata con recupero da dietro ai danni di Andre Igoudala: la fotografia di gara 7, il verdetto definitivo, l’idea di chi, in quel momento, era certo di avere una piccola boccata di ossigeno in più del resto della popolazione mondiale. In una epica sfida dettata ormai solo dai nervi e le inerzie di corpi totalmente spompati per tutto l’ultimo periodo, LeBron James crolla sulla sirena abbracciando il pallone e piangendo. Diventa l’unico, insieme a Kareem Abdul-Jabbar, a vincere il titolo di MVP delle Finals con due squadre diverse. Diventa l’unico e il solo ad aver dato la NBA a Cleveland. Diventa, finalmente, un vero Re.

K – come Kerber, l’esplosione del tennis femminile che torna a dare una numero uno di talento anche se un po’ meno forzuta di quanto eravamo abituati a vedere in quella posizione del ranking WTA. Angelique Kerber era in miglioramento da qualche anno, ma l’esplosione del 2016 forse non era così prevedibile. Vince il suo primo Slam in carriera in Australia a gennaio, battendo in finale Serena Williams 64 36 64 quando Serena era 8-0 nei terzi set alle gare di Slam. Angelique è diventata ventottenne da meno di 15 giorni quando gioca, e vince, la sua prima finale di un Grande Slam, ma nessuno immagina che si tratti solo di un antipasto. Nonostante un avvio di stagione fatto anche di qualche punto di caduta, la tedesca ottiene la finale di Wimbledon, dove non riuscirà però a placare la sete di rivincita di Serena, e quella degli US Open. A New York gioca il match decisivo già da numero uno del mondo, la più vecchia tennista a fregiarsi di tale titolo per la prima volta con i suoi 28 anni e 7 mesi; l’impresa è dovuta all’eliminazione della Williams (che lascia il trono dopo 186 settimane) da parte della ceca Karolina Pliskova. La Kerber vince poi in tre set la finale e chiude il 2016 con tre finali del Grande Slam, le prime giocate in carriera, di cui due vinte, oltre al Premier di Stoccarda. In aggiunta perde altre 4 finali, tra cui quella olimpica, che vale l’argento per il suo paese, e quella delle Finals WTA. Non male per una ragazza che da due anni chiudeva al decimo posto e oggi scalda lo scranno della numero uno. Con tanti saluti a tutti, ma stavolta è un arrivederci al 2017.

L“A un certo punto tutti tifavano Leicester. Questo è quello che ci siamo sentiti raccontare dalla stampa e dallo stesso Claudio Ranieri, l’allenatore che ha scritto la pagina più importante nella storia dei Foxes. Tutti tifavano Leicester: le big del calcio inglese, che auspicavano di rimediare al proprio fallimento condividendo la sconfitta con gli avversari di sempre, le piccole squadre di Premier, o delle divisioni inferiori, che vedevano finalmente realizzarsi qualcosa di impossibile anche nel calcio del business, dei fondi finanziari che gestiscono i club e delle spese folli. Tutti tifavano Leicester anche fuori dall’Inghilterra, anche in Italia e non solo perché l’allenatore è italiano, ma perché queste favole, sotto sotto, piacciono a tutti e rendono emozionante la routine dei campionati nazionali dominati dai giganti di sempre. Il Leicester City FC ha scritto una delle più grandi imprese sportive di sempre, la più grande del calcio moderno, vincendo la Premier League trascinata dai gol di Jamie Vardy e le giocate di Riyad Mahrez, eletto giocatore dell’anno in Inghilterra. La favola Leicester, cominciata in sordina, come tutte le storie di questo tipo, è cresciuta piano piano dopo che, in settembre l’Arsenal aveva rifilato 5 gol alla squadra di Ranieri. Da quel momento, che dava l’impressione della solita stagione in posizioni medio basse in classifica, il Leicester non ha quasi mai più perso, dato grande dimostrazione di forza a Manchester, sponda City (3-1), e rimesso tutto in discussione a Londra, ancora l’Arsenal, 2-1 per i Gunners al 95°. Poi tanta solidità, difesa e contropiede, cinque 1-0 in sei gare (la sesta un 2-2) per mantenere la vetta, e poi fino in fondo, fino al pareggio per 1-1 in quello che per tutti è il Teatro dei sogni, l’Old Trafford, ultimo punto necessario per essere campioni d’Inghilterra.

M – Dopo 71940 yard lanciate Peyton Manning ha detto addio al football. Lo ha fatto nella stagione più dura e difficile, acciaccato, con un fisico che non rispondeva più alla mente. Una stagione dove metteva in fila un record dopo l’altro ma segnava anche uno 0.0 di rating in una partita e perdeva sei incontri per infortunio. Poi i playoff, i temutissimi playoff, quelli dove il modo di perdere lo ha (quasi) sempre trovato. Lo ha sorretto una difesa stoica, che ha intercettato Tom Brady al Championship nel tentativo di conversione da due punti che avrebbe portato le squadre ai supplementari e poi, forse, i Broncos all’inferno. Lo ha sorretto contro la temibile armata dei Carolina Panthers, mentre lui, a tratti persino goffo, faceva forse anche meno del compitino, lanciando solo 141 yard e un intercetto e dentro il casco intravedevi un’espressione strana, triste, sofferente, come se nemmeno l’essere ad un passo dal titolo lo potesse soddisfare. Come se il dolore per non avere dieci anni di meno fosse superiore a quello fisico. In quella notte di San Francisco, Manning ha giocato il suo quarto Super Bowl, vincendolo per la seconda volta (con due squadre diverse) e toccando quota 200 come numero di vittorie da QB titolare, l’unico ad essere arrivato a quella vetta. I suoi record individuali e non, da rookie e da veterano, occupano la metà delle pagine messe online da Wikipedia. Inutile citarne anche solo uno. Dice addio con una conferenza stampa a tratti ironica, che da lui non ti aspetti, anche se la serietà e l’amore per il gioco emergono di continuo, come se lui fosse quello che devi prendere sul serio anche alla recita di natale per i bimbi dell’asilo. Dice addio anche uno dei più grandi di ogni epoca del football NFL. Di poche parole, e tanta, tanta classe. Bella lì Peyton, siamo invecchiati insieme.

N – A Rio 2016 abbiamo atteso con trepidazione che una delle discipline regina dei Giochi Olimpici cominciasse a sentenziare sullo stato attuale del mondo del nuoto. Da parte italica, ovviamente, la grande attesa era per Federica Pellegrini ed il giovane talento Gregorio Paltirnieri, campione del mondo in carica e primatista europeo nei 1500 SL. Più in generale, il rientro del fenomeno Michael Phelps generava aspettative altissime anche solo pronunciando il nome. Al netto dell’acqua verde nella piscina per i tuffi, i risultati e le emozioni in vasca sono stati altalenanti. La Pellegrini non ha portato a casa nulla, se non polemiche, frustrazione, ritiri annunciati e mai avvenuti oltre a qualche insulto su Twitter a troll incolpevoli e polemici appassionati di nulla cosmico. Greg ci ha fatto fare le ore piccole, con una berliner weisse brassata da Buxton Brewey che attendeva pericolosamente sulla sponda del divano di essere bevuta. Nei 1500 Paltrinieri non ha solo vinto, ha dominato, chiudendo i giochi già alle prime vasche e resistendo senza problemi ad un accenno di recupero di Connor Jaeger (2°) giunto a 5 secondi di distanza. Terzo, con sorpresa, l’altro azzurro in gara, Gabriele Detti. Phelps, invece, non ha deluso, anzi, come al solito, ha dominato quasi senza avversari tutte le gare. Alla sua quarta olimpiade lo squalo di Baltimora porta a casa 5 ori e un argento nei 100 farfalla il che spinge il totale a 28 medaglie olimpiche (23 ori, 3 argenti, 2 bronzi). Se Michael Phelps fosse una nazione sarebbe oggi 40° nel medagliere di sempre dei Giochi Olimpici, incastrato tra Jamaica ed Etiopia (38° eliminando ex “nazioni” come CSI e Germania Est), davanti a paesi come Argentina, Serbia, Messico. Phelps ha detto di nuovo basta, per cui se volete un conteggio totale della sua carriera, al netto delle decine di record del mondo stabiliti, potete aggiungere 33 medaglie ai Mondiali (26-6-1), un oro in mondiale in vasca corta, 21 medaglie complessive ai Giochi PanPacifici (16 ori e 5 argenti) e 94 medaglie nei vari campionati nazionali (Trials inclusi) suddivisi in 75 ori, 12 argenti e 7 bronzi. Non sappiamo quando sia stata l’ultima volta che Michael Phelps è uscito completamente deluso dall’acqua ma, se sappiamo contare, da quando si è tuffato per la prima corsa ufficiale della sua carriera a oggi, il medagliere complessivo recita 177 medaglie di cui 83 in campionati internazionali, suddivise in 141 ori, 36 argenti, 10 bronzi. A livello internazionale lo score è 66-14-3. Poi si è ritirato, di nuovo, dal nuoto. Saluti da Atlantide!

O – anno olimpico, giochi olimpici. Rio 2016 rappresenta la XXXI^ edizione delle Olimpiadi moderne e molti si trovano a rimpiangere quelle antiche. Palazzetti semi deserti col pubblico brasiliano antisportivo e troppo calciofilo (fischi agli avversari alle Olimpiadi?) e poco interessato se non alle esibizioni di atleti brasiliani con tribune che risultano vuote persino in alcune semifinali. Organizzazione discutibile narrata dai media con l’acqua verde della piscina che rimane il souvenir migliore per fotografare l’evento organizzato in salsa carioca. L’orario ci penalizza, certo, ma nel complesso sembra un’edizione sotto tono dove le emozioni scarseggiano. Esplodiamo per i 400 metri di Wayde van Niekerk, e per i 10000 volati da Almaz Ayana, due strepitosi record del mondo. Fotografiamo le conferme di Bolt, le zero medaglie italiane nell’atletica, la solita tuttologia in salsa social per qualunque disciplina, le delusioni nel nuoto e, in parte, nello scherma. Da italioti ci emozioniamo per le imprese degli sport di squadra con il Settebello (bronzo), il Setterosa (argento), l’Italvolley (argento). Insomma, tante “belle sconfitte”. Peccato davvero lo scarso clima olimpico percepito. Speriamo vada meglio a Tokyo, poi vedrete come saremo bravi noi a Roma 2024! Ah no…

P – Ok, non è un grande evento, non è una cosa che tutti tra dieci anni ricorderanno, ma quando si arriva ad un primato unico e che, per forze di cose, resterà imbattibile, è giusto celebrarlo. Con il gol segnato di testa il 9 gennaio, nel 2-1 conto l’Udinese, il “piccolo” Lorenzo Pasciuti (172 centimetri), esterno offensivo del Carpi, diventa il primo calciatore nella storia italiana ad aver segnato nelle prime 5 categorie calcistiche nazionali con la stessa maglia. Dalla Serie D alla Serie A, una gavetta faticosa e interminabile fino all’apice del gol nella massima serie. Non stiamo a specificare che certi record i Messi e i Ronaldo non li faranno mai perché, quelli lì, raramente esordiscono in serie D e arrivano ai massimi livelli senza giocare altrove, ci sembra inelegante. Quindi facciamo finta di nulla.

Q – a metà del “girone all’italiana” del Terzo Turno di qualificazione per la fascia asiatica dei Mondiali 2018, il Qatar è al penultimo posto con 4 punti frutto di una vittoria, un pareggio e tre sconfitte. Nelle sucessive cinque gare la nazionale allenata dall’uruguaiano Jorge Fossati dovrà recuperare cinque punti all’Uzbekistan per sperare nel primo turno di spareggi tra le due terze classificate che dà poi accesso a ulteriori playoff intercontinentali. Sei, invece, sono il minimo di punti di gap da coprire per la qualificazione diretta in Russia, ma Iran e Corea del Sud appaiono squadre decisamente superiori. Tutto questo per dire che, non sapendo cosa mettere alla Q, ci troviamo a parlare dei mondiali che si svolgeranno tra sei anni, quelli del Qatargate, della corruzione e degli scandali FIFA. Quelli che si giocheranno in inverno sconvolgendo il calendario del calcio mondiale, in un paese che ha miliardi di petroldollari ma nessuna tradizione. A quanto ne sappiamo al 2016, il Qatar non parteciperà ai mondiali di Russia divenendo, di conseguenza, un “paese ospitante” che mai ha giocato una partita di coppa del mondo. Al netto degli scandali di corruzione è una piccola vergogna anche solo a livello di sport. In tutto questo inutile valzer di parole che nessun potere hanno per cambiare le cose, l’idea di Gianni Infantino, attuale presidente FIFA, era quella di portare il mondiale a 48 squadre partecipanti, giusto per alzare il tasso qualitativo. Le nazioni che “contano” gli hanno detto di no e, probabilmente, si stanno chiedendo come fanno a pescare sempre presidenti un po’ così…

R – Al netto delle esaltazioni per il Cristiano Ronaldo allenatore nella finale di Euro 2016, è innegabile che il quarto pallone d’oro vinto dal portoghese sia uno dei più meritati che la storia ricordi, per quanto un premio di questo tipo possa avere ancora un senso. CR7 arriva come al solito demolito dai troppi impegni in campionato per poter disputare un buon europeo, ma è comunque protagonista con la sua classe per tutto il 2016, da gennaio e dicembre. La sua nazionale vince il titolo continentale nonostante l’infortunio che lo mette fuori gioco dopo pochi minuti. Col Real Madrid vince la Champions League e corona un’annata straordinaria al Mondiale per Club dove, nel 4-2 finale contro i giapponesi del Kashima Atlers, mette a segno una tripletta. In mezzo a tutto questo supera Raul per reti segnate nel Real Madrid diventanto il primatista nella storia dei Blancos ed il secondo marcatore di sempre nella Liga.

S – Nell’incredibile notte di Basilea un attonito ed incredulo Liverpool, che sembrava poter portare a casa la finale di Europa League dopo un ottimo avvio, cede quasi all’improvviso all’incredibile rimonta del Siviglia. Pareggiando quasi per caso con Gameiro nel recupero del primo tempo, la squadra spagnola dilaga nella ripresa con la doppietta di Coke in cinque minuti e porta a casa il trofeo, il quinto di sempre (record della competizione) e il terzo consecutivo, impresa mai riuscita a nessuno. Prima di oggi il massimo era stato infatti un doppio trionfo, riuscito al Real Madrid (1985 e 1986) e allo stesso Siviglia (2006 e 2007).

T – Il 24 marzo ci lascia Johan Cruijff, divino interprete del Calcio Totale degli anni 70 con l’Ajax e la nazionale Olandese. Uno dei più grandi talenti della storia, probabilmente il più influente a livello tattico, colui che ha avuto il maggior impatto nel cambiamento del gioco del calcio, Cruijff è stato per almeno 3 lustri, tra gli anni 60 e 70, il miglior profeta del pallone. Talento straordinario nascosto in un fisico esile e longilineo, soprannominato il Profeta del Gol, il campione olandese ha vinto 3 Coppe dei Campioni consecutive coi lancieri e tre palloni d’oro, unico insieme a Michel Platini e Marco Van Basten (altro olandese) prima dell’evoluzione FIFA di questo premio. Autentica icona pop sul campo verde gli è mancata soltanto la consacrazione con la nazionale con la quale ha ottenuto un secondo posto al mondiale di Germania 74 e un “bronzo” in Jugoslavia agli europei di due anni dopo. Lasciò dopo quest’ultima competizione per dedicarsi al Barcellona che poi avrebbe anche allenato portandolo a livelli mai toccati prima: quattro campionati, due coppe nazionali, una Coppa delle Coppe e la prima, storica, Coppa dei Campioni. Celebre per la maglia numero 14, ritirata dall’Ajax e mai potuta usare in azulgrana per via del regolamento spagnolo, è visibile in cielo con i giusti strumenti: nella fascia principale di asteroidi, tra le orbite di Marte e Giove, l’asteroide 14282 porta il suo nome. Che la terra ti sia lieve, Profeta.

U – Nell’anno in cui spegne le trenta candeline, Usain Bolt demolisce di nuovo ogni avversario in pista e trionfa anche alle Olimpiadi di Rio. Cento, duecento e staffetta (4×100) i suoi terreni di caccia. Il giamaicano diviene il primo atleta a realizzare il triplete in tre edizioni consecutive, battendo in 9”89 Justin Gatlin e Andre De Grasse nei 100 e sovrastando, di nuovo, il canadese nei 200 dove chiude con in 19”78. Con quella che dovrebbe essere stata l’ultima olimpiade, Bolt si porta a 9 ori totali, che diventano 20 grazie alle 11 vittorie ai mondiali di atletica. Più che il figlio del vento ne sembra il padre, capace di controllare e dominare la natura, di correre come un fulmine, nel pieno rispetto del nome profetico che porta.

V – il 14 e il 15 agosto, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, è di scena l’Omnium, una delle prove più complesse e intense del ciclismo su pista. La speranza azzurra si chiama Elia Viviani, classe 1989 e campione europeo delle ultime due edizioni, nonché bronzo mondiale, della disciplina in questione. Nell’ultima prova, la corsa a punti, Viviani è in buona posizione di classifica ma è coinvolto in una caduta causata da uno scontro tra Mark Cavendish e Sanghoon Park che rischia di compromettere un intero sogno olimpico. Viviani si rialza, ricomincia a pedalare come supportato dagli dei del ciclismo (anche questa è un mio obbligo contrattuale), recupera, resiste e rimane fino alla fine tra le prime posizioni, giungendo 6° nella prova e guadagnando i punti sufficienti per vincere la classifica generale e la medaglia d’oro, riportando, nel ciclismo su pista, il metallo più prezioso in Italia dopo 16 anni.

W – L’idea della MLB di dare in mano la sceneggiatura della stagione a Steven Spielberg ha pagato più di ogni aspettativa. Grandissima trama che si conclude con un finale imprevedibile e di una drammaticità che ha superato qualunque pronostico. Le World Series del 2016 hanno così visto scontrarsi i Chicago Cubs, che non vincevano un titolo dal 1908, e i Cleveland Indians, digiuni dal 1948: insomma, le due squadre che da più tempo non portavano a casa un Commissioner’s Trophy, la coppa che spetta al vincitore e che ai tempi degli ultimi trionfi di Cubs e Indians nemmeno esisteva. Lo scontro, già pregno di suo di aneddoti, storie, ricordi, ricorrenze e immagini in bianco e nero (ammesso di trovarne), si risolve in sette gare ma, purtroppo per Cleveland, non finisce come in NBA e la città sfiora soltanto una storica doppietta. Andati avanti 3-1 e con due match point da giocarsi in casa gli Indians vengono prima rimontati poi sconfitti nella gara decisiva. Ultima gara che ha dell’incredibile ed è qua che ti accorgi che, davvero, dietro è come se ci fosse una sapiente regia. All’ottavo inning i Cubs hanno già il titolo in tasca essendo avanti di 3 punti quando subiscono la rimonta avversaria che fissa il risultato sul 6-6 che non si sblocca nemmeno al 9°. Più di un secolo di attesa per una, 60 anni per l’altra, 7 partite di finale e ancora non basta, ancora non c’è un vincitore… all’extra inning Chicago raggiunge due volte casa base e va 8-6 ma al suo turno di battuta Cleveland segna subito: 8-7. Incredibile, non può essere, la più lunga battaglia possibile. Ma poi, Cleveland, si ferma, poi non ce la fa, poi finisce… 8-7 Cubs e la Chicago degli orsetti esplode e festeggia per giorni e giorni. Dopo 108 anni i Cubs sono campioni del mondo e sul muro esterno dei graffiti di Wrigley Field appare finalmente la gigantesca scritta We Did Not Suck, con gli occhiali di Joe Maddon in bella vista.

X – La lettera del nulla, delle incognite ma anche dei pareggi per chi scommette o ricorda il Totocalcio. I pareggi come nel “Rivalry Game” più antico del football professionistico americano, il più sanguigno, melmoso e rognoso “derby” della NFL. Dopo 83 anni il totale dei confronti tra Chicago Bears e Green Bay Packers torna in parità: 94 vittorie per parte, con 6 pareggi di contorno. Era dal 1936 che le due franchigie non si ritrovavano con lo stesso numero di vittorie negli scontri diretti, scontri che hanno fatto epoca, storia e, spesso, leggenda. Scontri che si dividono 22 titoli NFL, 96 stagioni di football (95 a essere precisi, l’anno dello sciopero e del calendario ridotto non si affrontarono), 6666 punti totali negli scontri diretti, risse, partite “non ufficiali” sospese, orgoglio, dominio. Signori, la NFL. La Rivalità. Il Football. Bears contro Packers, “Mudbaths & Bloodbaths”.

Y – Perdonerete il giochetto da arrampicata sui muri, ma il fatto che “anno”, in inglese, si dica “year” c’entra il giusto ma ci permette di arrivare giustamente ad Andy Murray, nuovo numero uno del tennis mondiale dopo una stagione stratosferica, il suo miglior anno di sempre. Ne accennammo anche nel discorso di fine anno 2015, sostenendo che lo scozzese difficilmente sarebbe potuto mai salire ai livelli di Roger Federer, Novak Djokovic e Rafa Nadal, ossia i tre moschettieri con cui Murray, per la stampa, condivideva già da anni il titolo di Fab Four. L’avvio della stagione sembra la solita solfa, un po’ per il vuoto di potere, un po’ perché talento in giro sembra esserne rimasto poco, Murray gioca ottimi tornei ma si schianta sempre contro Djokovic. Contro il serbo perde la finale degli Australian Open in gennaio in 3 set e quella di Madrid. Il filotto si conclude a Parigi, ancora Djokovic, ancora sconfitta (in 4 set); sembra l’ennesima stagione illuminata dal talento di Nole. In mezzo Murray ha raccolto “solo” la vittoria a Roma, divenendo il primo britannico dell’era open a vincere nella nostra capitale. Poi arriva giugno, ritorna Ivan Lendl come allenatore, ritorna l’erba. Andy Murray vince prima al Queens (per la quinta volta, record assoluto), poi a Wimbledon per la seconda volta, vincendo entrambe le finali contro Milos Raonic. Alle Olimpiadi altra vittoria e altro record, sconfigge in finale un redivivo Juan Martin Del Potro portandosi a casa il secondo oro della storia (il primo vinto quattro anni fa proprio sull’erba di Wimbledon) e diventando il primo tennista di sempre capace del back to back olimpico. Dopo l’estate vince altri quattro tornei, tra cui due Master 1000; il secondo di questi, a Parigi-Bercy, gli consegna la corona di numero uno del mondo. È il 26° sovrano del tennis ATP. Regno che andrà subito difeso alle ATP World Tour Finals, dove nell’ultima sfida c’è di nuovo Novak Djokovic: chi vince porta a casa il Masters e il posto di numero uno al mondo. Lo scozzese arriva dalla partita più lunga nella storia delle ATP Finals (57 76 76 contro Raonic), ma nonostante questo si sbarazza anche dell’ultimo ostacolo (63 64) e chiude l’anno da campionissimo: 78 vittorie, 9 sconfitte, 9 titoli, il numero 1. Ora sì è davvero un Fabolous Andy Murray.

Z – In gennaio Zinedine Zidane si ritrova catapultato sulla panchina di allenatore del Real Madrid dopo l’ennesimo esonero subito da Rafa Benitez (bisogna forse cominciare ad ammettere che il Liverpool è stata una splendida eccezione) e i dubbi sul fatto che possa reggere il peso di tale impegno sono tanti. È sempre difficile giudicare chi siede sulla panchina più prestigiosa d’Europa, non sai mai quanto peso abbia l’ambiente in tutto ciò che viene fatto, non distingui mai il valore dell’allenatore e quello, più politico e organizzativo, della società o, meglio, del sistema Real Madrid. Dalla Coppa del Re esce squalificato da un errore di formazione (schiera un giocatore che non poteva scendere in campo), in campionato arriva dietro al Barcellona campione, ma in Champions League, ossia dove conta di più, in particolare in un posto come Madrid, dove anche un campionato vinto può costare l’esonero senza successi in Europa, ecco, lì arriva la vittoria, la prima di sempre per un allenatore francese. L’undicesima nella storia del Real, di nuovo in finale contro i cugini dell’Atletico, due anni dopo la Decima, piegati stavolta ai rigori. I Blancos eliminano Roma (doppio 2-0), Wolfsburg ribaltando lo 0-2 subito in Germania al Santiago Bernabeu (3-0 secco), il Manchester City (0-0 fuori e 1-0 a Madrid) e, appunto, l’Atletico, con rigore decisivo calciato da Cristiano Ronaldo dopo l’errore di Juan Fran e il pareggio di 1-1 maturato nei 120 minuti precedenti. Zizou diventa il settimo uomo della storia ad aver vinto la “coppa dalle grandi orecchie” sia da calciatore che da allenatore, il quarto ad averlo fatto con la stessa squadra insieme a Miguel Munoz (sempre col Real Madrid), Josep Guardiola (Barcellona) e Carlo Ancelotti (Milan).

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2 risposte

  1. Luca Ferrari ha detto:

    Mode “facciamo la punta ai chiodi” ON: il record di Pasciuti è fantastico perché fatto con la stessa squadra. Con squadre diverse c’è chi ha fatto addirittura meglio: il record (imbattibile) di aver segnato in TUTTE le categorie (dalla serie A alla terza categoria) appartiene ad Antonio Martorella.

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