Barcellona 1992: il sorriso mai spento di Fabio Casartelli

Barcellona 92 è stata la “mia” Olimpiade. Stavo per compiere 18 anni, mi apprestavo ad iniziare l’ultimo anno del liceo ma soprattutto avevo tutto il tempo libero possibile per poter seguire qualsiasi gara volessi anche perchè l’orario era praticamente lo stesso nostro. Si ok, si andava a mare, si poteva uscire la sera…ma era l’Olimpiade e qualche sacrificio si poteva fare no?

Se 4 anni prima si sentiva che il mondo stava per cambiare, adesso si era in pieno stravolgimento di tutto ciò che era immobile sin da dopo la seconda guerra mondiale: il muro di Berlino era caduto e la Germania era di nuovo unita, l’Unione Sovietica non esisteva più, c’era la CSI (Comunità degli Stati Indipendenti) che partecipò con la bandiera olimpica e vinse anche il medagliere finale, il terrorismo internazionale sembrava un problema ormai lontano e il profumo dell’ottimismo si espandeva nel mondo.

In Italia l’atmosfera era diversa invece perché la Mafia aveva gettato la maschera e aveva deciso di fare guerra aperta allo Stato e ai suoi rappresentati in prima linea, con il periodo stragista e gli attentati di Capaci e via D’Amelio (ricordo perfettamente quei caldi pomeriggi estivi davanti alla televisione a seguire gli aggiornamenti dalla Sicilia…e proprio l’altro giorno c’è stata la ricorrenza della morte di Falcone, ndr), con tutti noi che ci rendevamo conto che la Mafia non era solo un “problema” siciliano ma di tutta l’Italia (e noi salentini forse capimmo meglio quello che avevamo rischiato nei primi mesi di quell’anno con il fallito attentato della Sacra Corona Unita al treno Lecce-Milano-Zurigo, quello degli emigranti che tornavano al lavoro al nord o in Svizzera dopo le vacanze di Natale). Quattro anni prima le Olimpiadi distrussero la mia ingenuità, in quel momento era invece ormai consapevole che il mondo non era tutto biano o nero ma composto da diverse sfumature di grigio.

L'unico e vero Dream Team

L’unico e vero Dream Team

Le Olimpiadi furono aperte da quella spettacolare inno, Barcelona, che era stato composto da Freddy Mercury (scomparso l’anno prima perché, eh già, eravamo anche in pieno allarme AIDS) e cantato da lui e dal soprano spagnolo Montserrat Caballé, il miglior inno ufficiale mai realizzato per una competizione sportiva internazionale (si, superiore anche a Notti magiche di Bennato-Nannini per me), e furono delle grandi Olimpiadi: furono quelle del Dream Team (originale, unico e irripetibile), dello zar Aleksander Popov, della nascita del fenomeno Cina grazie agli estratti di tartaruga (inserire battuta a piacimento), di Linford Christie e delle ultime zampate di Carl Lewis (oro in staffetta e nel lungo), delle gambe chilometriche dell’elegantissima Marie-Josè Perec, dell’ultimo gara a grandi livelli degli Abbagnale e Di Capua, del ginocchio della Trillini (oro nel fioretto in singolo e di squadra, che per me però rimane quella di Dorina Vaccaroni, cuoricini cuoricini cuoricini), della scoperta di uno sport che si chiama kayak slalom con l’oro dell’allora sconosciuto al grande pubblico Pierpaolo Ferrazzi e dell’interminabile e spettacolosa finale di pallanuoto maschile Italia-Spagna che meriterebbe un articolo a parte. Quando però ripenso a quelle Olimpiadi la prima cosa che mi viene in mente è il sorriso genuino e gli occhi felici di un ragazzo poco più grande di me: Fabio Casartelli.

Sin da bambino ero sempre stato un grande appassionato di ciclismo, avevo una bici da corsa sin dall’età di 5 anni e durante le vacanze estive girovagavo spesso tra le campagne nei dintorni del mio paese, magari dopo aver visto una tappa di un grande giro in TV, cercando qualche piccola salita per emulare i grandi ciclisti che tanto ammiravo. Ora, se siete mai venuti in Salento sapete quanto sia difficile trovare qualche asperità che si possa anche lontanamente paragonare ad una salita, per questo alla fine dovevo puntare più che a impersonare un Gianni Bugno che finalmente batteva Miguel Indurain, meglio un giovane Mario Cipollini che batteva in improvvisate volate avversari invisibili. In fondo in quel momento il ciclismo non era ancora succube del problema doping (ovvero non era ancora noto che il problema fosse a livelli inimmaginabili), avevo molto tempo libero nel pomeriggio per seguirlo e quindi quella bici da corsa ormai sgangherata e prossima a rompersi era la mia fedele compagna.

A Barcellona però non avrebbero corso i professionisti, sarebbe toccato agli Under 23, e per di più le squadre sarebbero state composte da soli 3 ciclisti, rendendo praticamente impossibile controllare la corsa che quindi sarebbe stata un vero e proprio uno contro tutti. L’Italia schierava i promettenti Davide Rebellin (che poi ha fatto una “discreta” carriera ancora da chiudersi) e Mirco Gualdi (2 anni prima campione mondiale di categoria) più Fabio Casartelli, reduce da un’ottima stagione ma sicuramente il meno quotato dei tre. Io ovviamente non conoscevo nessuno dei tre e non mi aspettavo molto dalla gara e me ne andai in spiaggia.

Al ritorno dal mare, accendendo la TV, la prima sorpresa: c’erano tre ciclisti in fuga, la gara si avvicinava alla chiusura, e tra i quei tre c’era un italiano, proprio lui, il meno quotato, Fabio Casartelli. La gara era stata molto vivace, con numerosi tentativi di fuga data la difficoltà di “tenere insieme” il gruppo e il nostro numero 106 era stato abile ad infilarsi in quella che sembrava proprio la fuga giusta.

Dietro Rebellin e Gualdi si comportavano da perfetti compagni di squadra e bloccavano tutti i tentativi del gruppo di ritornare sui fuggitivi, i chilometri che mancavano alla fine erano sempre di meno e l’eccitazione per l’arrivo si alternava alla necessità del pranzo. Ma ormai i giochi erano fatti: sarebbe stato un arrivo a tre e la medaglia era sicura.

Casartelli veniva descritto come un passista veloce anche in volata, l’olandese Dekker sembrava essere l’avversario più pericoloso mentre il lettone Ozols pareva già soddisfatto di essere arrivato sul podio. La telecronaca era del grandissimo Adriano De Zan, dallo stile asciutto e dalla cultura enciclopedica. Ozols fu il primo che lanciò lo sprint, ma ormai non ne aveva più e fu passato dai due compagni di fuga, Dekker resistette un po’ di più ma alla fine mollò anche lui: davanti a tutti era rimasta solo una maglia azzurra (un azzurro molto stinto a dir la verità), alzò le mani al cielo, la medaglia d’oro era sua, Fabio Casartelli aveva riportato il titolo olimpico del ciclismo su strada in Italia, titolo che mancava dal 1968.

Ci sarebbe da parlare della bellezza delle immagini di quell’arrivo con tutti e tre i corridori che arrivarono con le braccia al cielo esultando, dello splendido sorriso di Fabio durante la premiazione, di quegli occhi che non puoi non amare durante l’inno, ma quello che sembrava solo l’inizio di una splendida storia di sport si sarebbe poi rilevato il punto più alto della carriera di un giovane ciclista.

Fabio Casartelli

Fabio Casartelli

Dopo le Olimpiadi Casartelli passò professionista ma trovò molte difficoltà nell’adattarsi alla categoria superiore, il suo talento sembrava smarrito, o forse erano solo le aspettative su di lui che erano diventate troppo alte dopo quell’inattesa e bellissima vittoria. Per cercare di ricominciare da zero decise di firmare con la statunitense Motorola, quasi a ritornare uno dei tanti e scrollarsi di dosso quelle aspettative che lo rendeva più pesante. Io però continuavo a seguirlo sempre con interesse perché quel sorriso e quegli occhi mi erano rimasti impressi, e cercavo sempre d’individuarlo nelle inquadrature del gruppo o magari trovarlo di nuovo in fuga in qualche corsa importante.

Purtroppo il suo nome tornò alla ribalta il 18 luglio del 1995, durante la quindicesima tappa del Tour de France. Due giorni prima aveva vinto la tappa Marco Pantani, e dopo il giorno di riposo si ripartiva per una tappa vallonata, di mezza montagna, di quelle in cui si scatenava Richard Virenque, che infatti se non sbaglio era già in fuga quando le prime immagini che arrivavano dal collegamento internazionale sulla RAI mostravano una caduta nella discesa del Col d’Aspet, una di quelle montagne anonime ed inutili che gli organizzatori mettono spesso nelle tappe pirenaiche o subito dopo senza un vero perché: un ciclista era finito addirittura in una scarpata (Dante Rezze che poi si ruppè il femore), altri erano a terra più o meno acciaccati, e poi la telecamera sulla moto inquadrò di sfuggita una maglia blu scuro inerme a terra riccioluta e con dei lunghi rivoli di sangue intorno: era proprio Fabio Casartelli che nella caduta era andato a finire con la testa proprio su uno di quei paracarri in cemento. All’epoca il caschetto in gara era facoltativo, e con quel caldo di luglio nessuno lo indossava.

Le condizioni di Fabio sembrarono immediatamente molto gravi, fu trasporta in ospedale con l’elicottero ma ormai c’era poco da fare. Ricordo ancora le parole di un De Zan sul limite delle lacrime: “scusate la mia commozione, ma il nostro computer ha appena comunicato che Fabio Casartelli è morto!”. Era stato lui che ne aveva raccontato la vittoria più bella, era lui che ne comunicava la morte, strano gioco del destino. Quel ragazzo che mi aveva conquistato con quel sorriso semplice non c’era più e non mi sembrava possibile. Mi sembra di ricordare poi una telecronaca proseguita senza commento, con le immagini di un festante Virenque a cui non era stato comunicato niente e con l’organizzazione che decise di fare lo stesso le premiazioni nonostante la morte di uno del gruppo. Un figlio di pochi mesi non avrebbe mai avuto l’occasione di crescere il proprio padre.

Il giorno dopo la tappa si corse per modo di dire: fu un lungo, interminabile funerale su due ruote che fece aumentare a dismisura la mia angoscia, aumentata ancor di più quando sul traguardo tutta la Motorola al completo, tenendosi per mano, attraversò insieme la linea d’arrivo, con Andrea Peron, suo compagno di stanza e colui che lo aveva convinto a trasferirsi nella nuova squadra, leggermente più avanti degli altri. Il giorno dopo poi Lance Armstrong fece uno di quei numeri che me lo fanno sempre ricordare come un grande campione diventato poi una macchina “spietata e crudele”: attacco, fuga e poi arrivo solitario con dita puntate al cielo dedicando la vittoria alla memoria del povero Fabio.

Lance Armstrong dedica la vittoria a Fabio Casartelli

Lance Armstrong dedica la vittoria a Fabio Casartelli

Una maglia azzura braccia al cielo, un sorriso genuino, una maglia rossoblu con dita puntate verso l’alto: questo è stato e sempre sarà per me Fabio Casartelli.

CAPITOLI PRECEDENTI

1 – Seoul 88

CAPITOLI SUCCESSIVI

3 – Atlanta 96

4 – Sidney 2000

5 – Atene 2004

6 – Pechino 2008

7 – Londra 2012

angyair

Tifoso dei 49ers e dei Bulls, ex-calciatore professionista, olimpionico di scherma, tronista a tempo perso, candidato al Nobel e scrittore di best-seller apocrifi. Ah, anche un po' megalomane.

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20 risposte

  1. mlbarza ha detto:

    E’ commovente ancora a distanza di anni il ricordo di quelle giornate di Luglio, della rabbia e dell’odio sportivo che da quel giorno ho provato per Virenque (che poverino, non aveva colpe, ma un ragazzino di 13 anni certe cose non le capisce…) e dello stupore dovuto al fatto che lo spettacolo in ogni caso doveva andare avanti; e fa ancora più rabbia cosa accadde poi, con la replica dell’arrivo della squadra in “lutto” replicato per la TVM poi fuggiasca, per non parlare di tutto ciò che è uscito poi su Lance.

    Ma nulla potrà mai cancellare il ricordo di quei giorni, unito al ricordo più labile del trionfo di Barcellona, compresa quella splendida immagine dei tre in arrivo festanti. E’ uno strano caso del destino, che uno venga ricordato per il più grande successo che ogni sportivo possa desiderare di ottenere e per la più grossa tragedia che la vita ti possa riservare.

    Quelle del 1992 per me furono le olimpiadi (sia Albertville che Barcellona) della consapevolezza che lo sport andava oltre 22 tizi in maglietta e pantaloncini che prendevano a calci un pallone, hai scelto una storia che vale sempre la pena raccontare per ricordarle.

  2. chinabowl ha detto:

    Ottimo. Sono praticamente i miei ricordi. Per altro la gara di Barcellona è una delle 4-5 corse che ho seguito fino alla fine nella mia vita. Ed ero contentissimo alla fine! 😀 Ricordo la morte di Fabio, ero a Genova, quando lo dissero in TV mi tornò subito in mente quella mattinata di Barcellona… ovvio, ma fu proprio così. La squadra che viene lasciata vincere in gruppo, il giorno dopo e l’impresa di Armstrong il giorno dopo ancora, una gara del destino, un arrivo commovente.

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