Da San Benedetto Po a San Siro – Inter-Carpi 1-1

È tutto vero

È tutto vero

Per raccontare una storia così, forse, servirebbe un romanzo. Servirebbe la capacità di Nick Hornby di romanzare la normalità, di dettare pagine di passione. Perché la storia che conduce da San Benedetto Po a San Siro è tutto sommato riducibile a questo: passione e normalità. Non c’è molto di più, né una storia strappalacrime alle spalle né casi umani che emergono contro ogni destino, ma la storia di un ragazzo come tanti (e non è il solito modo di dire) che, in Italia, fa quello che fanno milioni di bambini, cioè dà calci a un pallone sognando un giorno di poter galoppare sui campi degli stadi più importanti. Che tutto ciò avvenga passando da una piccola realtà come Carpi e che il momento più alto, il sogno che si avvera, sia un pareggio in una stagione che potrebbe concludersi con una retrocessione sono dettagli che non cancellano quei pochi secondi di trionfo che rimarranno ingabbiati per sempre nella memoria di chi ha vissuto il miracolo di San Siro. Una fiaba di cui il calcio ha bisogno per ripulire, di tanto in tanto, la ruggine di meccanismi corrotti e abbastanza sporchi da riempire sempre più spesso la cronaca giudiziaria invece di quella sportiva.

Servirebbe un romanzo, che forse pochi vorrebbero leggere perché mancherebbero la droga e le puttane, il colpo di teatro all’americana, la storia del piccolo uomo che si è fatto re. Sarebbe la storia di un ragazzo di provincia che fino a due anni fa militava nei dilettanti e passava le estati in tornei aziendali o tra bar e che domani, per assurdo, potrebbe ritrovarsi nella stessa situazione. Questo ragazzo però potrà un giorno raccontare ai nipoti di quella volta che gelò San Siro al 92° con una falcata delle sue e un sinistro di rara precisione a infilare il portiere col miglior rendimento di Serie A. Non una storia da poco. Non una cosa che il giorno dopo può essere soltanto cronaca. Una cosa talmente semplice e sportivamente meravigliosa che va seguita a occhi chiusi, senza retoriche colonne sonore di sottofondo, senza commenti. Il solo rumore del campo, il suono dello stadio che tace col sottofondo del solito manipolo che urla incredulità e gloria.

Non può essere la fredda cronaca calcistica a raccontare un momento di questo tipo, una cronaca che si perde più sulla bruttezza dell’Inter che non sul grande spirito dei Biancorossi, che liquida episodi arbitrali dubbi come la normalità e riesce solo a ironizzare su quel buffo cognome che accompagna quello che per tutti, a Carpi è, da sempre, KL15; la sigla da grande campione, quella che gli sponsor cuciono sulle scarpette dei fenomeni e qualche sponsor tecnico, da qualche anno, ha reso la regola sulle maglie d’allenamento dei grandi club.

Ho una foto, in qualche cassetto, di un bambino con la divisa dell’Inter che palleggia col destro nel cortile di casa. Quella maglia avrebbe avuto il 9 sulle spalle, quello di Alessandro Altobelli, ma non era ancora stato cucito perché la voglia di sentirsi parte di qualcosa indossando quei colori era troppo forte per un bambino di otto anni. Mi piace pensare che anche Kevin Lasagna, figlio di appassionati di cinema americano (la sorella si chiama Sharon), abbia una foto simile nel suo cassetto, senza l’improbabile caschetto anni 80 e col sinistro a colpire il pallone invece del destro. E il 9 di Ronaldo, magari, visti i tempi. Ci uniscono il tifo dell’infanzia e il momento, lontano nel tempo, in cui abbiamo sognato il gol davanti alla grande platea del calcio mondiale, alla Scala del pallone. Ci unisce un filo che porta fino al 92° di Inter-Carpi, dove siamo un po’ tutti i suoi assistman, dove siamo un po’ tutti a spingere il pallone, dove siamo un po’ tutti lì ad abbracciarlo dopo il gol, con quel sorriso sempre così normale come una rete segnata al bar avversario in una umida serata estiva nella provincia mantovana.

Quel momento

Quel momento

Niente sentimentalismi: milioni di persone hanno una storia come questa, un ricordo e un sogno mai realizzato. Ma l’attimo in cui il pallone, entrando in rete, ha non solo pareggiato giustamente i conti di una partita che non si meritava di perdere, ma anche riallacciato le mille storie tutte uguali di chi ha giocato sul cemento di periferia, è un momento che resta impresso come tra i più grandi della storia del Carpi Calcio.

Un Carpi in 10 e con Zaccardo zoppicante che attendeva solo l’ultimo maledetto pallone giocabile anche se le chance che l’Inter lo concedesse erano ridotte all’osso. Il bambino che un tempo ha avuto un caschetto improponibile si è diretto verso i bagni dello stadio per evitare il caos che segue il triplice fischio, passeggiando alla stessa velocità con cui, in quel momento, Jerry Mbakogu rientrava dalla settantaquattresima posizione di fuorigioco. Capita così che Raffaele Bianco non possa servire il nigeriano e debba appoggiare in maniera superba il taglio di Kevin Lasagna a sinistra. Con la follia di chi forse non si rende conto, il ragazzo dalla faccia pulita scatta e comincia a correre più forte che può. E va forte davvero, tanto forte. La pisciata può aspettare, la storia no. Il tutto dura un tempo indefinito col fiato che si ferma ed il cuore che sembra smettere di battere. L’adrenalina occupa ogni spazio del corpo, il cervello si annebbia e tu ti ritrovi a pensare che così no, così non puoi non farcela, così sarebbe troppo. Sbagliare quel pallone che sta andando sempre più verso il fondo defilandosi dalla porta non sarebbe un crimine ma non potresti reggere l’ennesimo “nooo” urlato da centinaia di tifosi. In un attimo non ci sono più il gol annullato, il rigore dubbio, le occasioni sprecate: ci sono Kevin Lasagna, Juan Jesus che arranca e Samir Handanovic che esce a chiudere tutto lo specchio. Lui, il portierone sloveno, quello che fa più punti dell’attacco, l’insuperabile. E’ finita, è stato bello ma è finita. San Siro, la partita, i vecchi amici, tutto bellissimo ma inutile: si torna a casa con un po’ di delusione.

Parte il tiro. Dalla prospettiva della curva opposta la palla passa e va verso la porta e non hai nemmeno il tempo o il coraggio di capire cosa stia succedendo quando vedi una gobba gonfiare la rete sull’angolo opposto. Gol. Ti ritrovi venti metri più in là con la vescica che non si lamenta più e la voce che non si può fermare come se urlare fosse un gesto incontrollabile mentre intorno tutti saltano e hanno volti deformati che sembrano quadri di Picasso; abbracci le persone che ami ma anche gli sconosciuti perché quel momento cancella tutto. Per un attimo, per un secondo solo, grazie a un ragazzo che, in fondo in fondo, non sembra così diverso da quelli che saltano dappertutto nel settore ospiti mentre lo stadio si vuota. Alzi lo sguardo e lo vedi, solo per un attimo, poi il triplice fischio. La panchina invade il campo, ci sono giocatori che si buttano a terra esausti, qualcuno piange, forse. Sembra tutto così vero che pensi non possa esserlo. Rialzi lo sguardo, rivedi l’immagine, per un attimo, prima che gli sponsor spengano lo schermo: Inter-Carpi 1-1. Non puoi non pensare, come ogni volta, a tutto quello che è stato questo gioco nella tua infanzia e nella tua gioventù. Ma stavolta ha tutto un sapore così strano, così particolare che… non importa. Davvero, non importa.

La fredda cronaca ci dice che il Carpi tocca il quarto risultato utile consecutivo portando via due punti tra l’Olimpico e San Siro e vincendo due scontri (di fatto) diretti con Udinese e Sampdoria. Eppure non c’è mai tempo per gioire davvero fino in fondo. La salvezza sembra ancora lontana ma per il rammarico ci sarà tempo. E allora facciamo come il ragazzo di San Benedetto Po: chiudiamo gli occhi e sogniamo.

“E poi era lì che faceva capriole, e io ero lungo disteso per terra, e tutti in salotto saltavano sopra di me. Diciott’anni, tutti dimenticati in un secondo”

Nick Hornby (Febbre a 90° – 1992) sul gol di Michael Thomas che diede la vittoria del campionato all’Arsenal  sul campo del Liverpool nel 1989

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13 risposte

  1. rowiz ha detto:

    Sempre lì, lì nel mezzo, finchè ce n’hai stai lì stai lì…

  1. 17 Marzo 2016

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