Luci a San Siro

Eccolo.

Si gira, sta guardando. No anzi: si rigira. Non guarda più: non ce la fa.

Ci riprova, perché dopo tutto sa che quella è la cosa giusta da fare, la cosa onorevole, la cosa che tutti si aspettano faccia: mani sui fianchi, occhi lucidati dalle lacrime, gambe molle che a malapena riescono a sostenere il fisico da atleta, tenta ancora una volta di voltare lo sguardo, la faccia, verso la tribuna. Quella tribuna dove la gioia irradiata dai giocatori in bianco è eclissata solo dal trionfo di flash e luci.

La coppa passa di mani fino ad arrivare a quelle del capitano dei giocatori bianchi che la afferra e la leva verso il cielo afoso di una notte milanese di inizio estate.

Ma lui alla fine molla, non ce la fa. Si dimentica di ciò che è giusto, di cosa è onorevole e di cosa tutti si aspettano faccia. Il viso, provato e rigato dalle lacrime come la maglia che indossa, torna a perdersi nella massa indefinita di umanità (atterrita e smarrita esattamente quanto lui, forse ancor di più) che gli si para dinanzi.

Lui è Fernando Torres, guerriero in una squadra di guerrieri, lottatore in una squadra di lottatori e, stasera, sconfitto in una squadra di sconfitti.

Atletico Real, Torres piange

Quel momento…

I bianchi in tribuna sono il Real Madrid, impegnati a festeggiare l’undicesima Coppa dei Campioni/Champions League e a rivendicare, ancora una volta, la loro supremazia sul resto dell’Europa calcistica.

Fernando Torres non guarda, e con lui altri compagni. Da circa trenta metri io lo osservo, lo esamino, quasi lo studio, appassionato da questo personale dramma sportivo. Ma per quanto lo osservi e lo studi non riesco a percepire nessun accenno di malizia o irriverenza nel suo gesto. Non c’è mancanza di rispetto, ma solo delusione. Il viso che punta verso la curva sud, quella dei suoi tifosi, non è un affronto ai vincitori: è l’ideale bandiera bianca issata altrettanto idealmente da un uomo che sa di aver lasciato sul campo la piena misura della sua forza e del suo valore ma che nonostante ciò ha dovuto chinare il capo dinanzi alla cinica crudeltà della realtà.

L’inno della Champions tuona dagli altoparlanti di San Siro come un osanna laico, mentre i coriandoli argentati brillano nell’aria umida della notte per poi lasciarsi stancamente cadere sull’erba bagnata. Il muro bianco che per una sera popola la curva nord urla, si scuote, par venir avanti tutt’uno, come un’immensa marea, quasi a voler partecipare fisicamente alla festa con i propri beniamini.

La distinta e netta sensazione di aver appena assistito alla scrittura di una delle pagine più emozionati e sinceramente appassionanti del calcio recente, mitigata solo da quella, altrettanto chiara, che dovrà passare tanto tempo prima di riassaporare il gusto che viene con l’essere graziati con simile privilegio.

Eppur io continuo a fissare gli sconfitti, perché mi appassionano di più. Mi paiono meno banali, molto più umani, molto più interessanti. Perché la sconfitta è molto più democratica che la vittoria: non ti dà tempo, modo, occasione di prepararti. Arriva e basta. Puoi studiare un’esultanza per la vittoria, ma non una reazione per la sconfitta. Non c’è copione, cerimoniale che tenga: se vuoi conoscere la vera essenza di un uomo osservalo dopo la più bruciante delle delusioni e capirai chi veramente sia.

E io ho visto uomini stanchi, provati, ma ancora ben padroni della propria dignità. Uomini sconfitti sì, ma non domi. Uomini veri, con le lacrime agli occhi.

Se mi si chiedesse cosa significhi assistere ad una finale di Champions League dal vivo risponderei che significa assistere alla messa in atto di un grande dramma sportivo, ricco nelle sue tante declinazioni ed esaltante nelle emozioni che regala. Un dramma con ventidue attori sul palcoscenico ed una permeante atmosfera di apparente e meravigliosa maestosità a fargli da cornice.

Il gesto sportivo di per sé quasi viene depotenziato della sua normale eccezionalità dal contesto. Sai di far da spettatore ad un qualcosa che va oltre il semplice evento sportivo. Quanto sia speciale lo annusi nell’aria prima ancora che vederlo.

Nelle tre ore e mezza totali che ho passato dentro lo stadio la mia impellenza più grande era quella di “rubare” il più possibile dal palcoscenico che avevo davanti e dalla platea in mezzo alla quale sedevo. Con gli occhi, con le orecchie, con il naso: sentivo mio dovere morale catturare ogni immagine, odore, rumore.

Il verde perfetto dell’erba, l’argento luccicante della coppa che ammiravo a pochi metri, l’assordante (e non è un’iperbole) grido “MADRID! MADRID!” della curva nord, il boato di pura gioia dei tifosi dell’Atletico al gol del pareggio, le smorfie di sofferenza sul viso di Cristiano Ronaldo nel secondo tempo supplementare e quelle di tensione sulla bocca di Simeone, la felicità negli occhi dei tanti bambini presenti, il rumore del pallone calciato da Juanfran che sbatte contro il palo del Meazza e con lui i sogni di gloria dell’Atletico.

Ricordi indelebili di una notte indimenticabile.

Resti inchiodato al tuo seggiolino perché assentarti anche se pur per un solo minuto, con il rischio di perderti anche solo un’azione, una smorfia, un gesto, una scena del dramma, ti sembra quasi immorale, irrispettoso: una bestemmia in chiesa. È una celebrazione laica dai toni religiosi di una religione altrettanto laica ma capace di smuovere le masse quanto solo quelle vere sanno fare. Uomini adulti, signore distinte, vecchi, bambini, belli e brutti, tutti là, si dice siano 70.000 e più, con le mani idealmente giunte e lo sguardo intento, fisso su quello che accade dinanzi. Differenze sociali, economiche, religiose (quelle vere), etniche, politiche dentro la chiesa laica del calcio perdono totalmente di significato, diventano irrilevanti, superflue: siamo tutti uguali davanti al fulgido splendore del calcio.

Atletico Real, Sergio Ramos gol

Proprio lui! Ancora lui!

Segna il Real e la curva nord, bianca come montagna innevata e fragorosa come un tuono di un temporale, pare caderti addosso. L’Atletico si conquista un rigore e la curva sud scatta in piedi, urla, scalpita: ma dura poco. Il rumore del pallone che impatta la traversa e ricade sull’erba è una coltellata al cuore delle migliaia di colchoneros che aspettano solo di vedere la rete gonfiarsi per liberare quarantasette minuti di tensione. L’effetto è simile a quello di un gigantesco pallone che si sgonfia rapidamente.

Ma gli uomini di Simeone attaccano, crescono con il progredire del cronometro e con loro i tifosi. La curva merengue fiuta il pericolo e si ritrae come un battaglione che capisce di essere stato aggirato sul fianco esposto.

Pareggia Carrasco e la netta sensazione che le fortune stiano cominciando ad arridere definitivamente a quelli in bianco e rosso si fa forte. San Siro è con loro, le stelle anche, forse.

Il dio del calcio è evidentemente magnanimo con chi lo ama, però. E decide che per stasera lo spettacolo, la festa, il rito deve continuare: 90 minuti di canonica regolarità non bastano per celebrare la bellezza dell’occasione. Se ne giocano altri 30. Ma non bastano neppure quelli: serve un ultimo atto, quello più crudele, spietato, sperato e temuto al tempo stesso.

Il momento è alto, la tensione pure. Non c’è un’anima seduta nel mio settore: la Storia esige rispetto.

I rigori sono una litania declinata come un rosario.

VazquezGriezmanMarceloGabiBaleSaulRamos, fino a che…PALO!

La palla che schizza lontano dalla porta di Navas dopo l’impatto con il legno della porta sotto la marea madridista è la condanna a morte per l’Atletico, il rintocco dell’ultima campana. Juanfran, suo malgrado esecutore materiale della condanna, lo sa. Simeone, che accusa il colpo come un toro nell’ultimo atto di una corrida, lo sa. La curva bianco-rossa lo sa. Io lo so. Tutti lo sanno. Il rigore di Cristiano Ronaldo è pura formalità a quel punto: l’esito scontato come l’esultanza che lo segue.

Il Real Madrid è campione d’Europa. Ancora. Per l’undicesima volta. Ma festeggiano come fosse la prima.

E quel proscenio che per quasi tre ore era stato diviso in due, combattuto, vinto, perso e poi rivinto, ora appartiene solo ai vincitori, i campioni. Esattamente come due anni prima in un’altra finale, in un altro stadio (che dico: cattedrale), in un altro Paese: una conclusione già vista per un dramma che si riscopre ogni volta unico e meraviglioso.

Per i guerrieri di Simeone, comandante dai modi a volte esagerati ma sempre straordinariamente lucido all’apice della battaglia, non resta che l’agonia della sconfitta come compagnia. Il dramma è compiuto, la cerimonia finita, i vincitori incoronati, gli sconfitti battuti ma non deposti.

Atletico Real, Torres e Simeone

This is the end…

Fernando Torres non guarda, non ce la fa. Prova a trattenere le lacrime, ma non riesce neppure in quell’intento. Le telecamere spietate ne proiettano il viso trasformato dalla delusione sul maxischermo. Si gira, poi si rigira.

È la resa.

L’urlo di trionfo madridista squarcia l’umidità milanese mentre migliaia e migliaia di braccia dagli spalti si levano al cielo insieme a quelle di Sergio Ramos, capitano coraggioso e icona di una squadra a cui la vittoria non appare eccezione ma semplicemente compimento di un destino già scritto.

In piedi, applaudo. Senza saper neppure bene a chi o cosa il mio applauso sia rivolto: se ai neo-campioni, o se all’onore di Torres e compagni, o se invece alla magnificenza e maestosità del momento. Ma applaudo, solennemente e con convinzione, come giusto fare.

Gli spalti lentamente si svuotano, i coriandoli sono tutti in terra, l’inno del Real finisce per l’ennesima volta di risuonare dagli altoparlanti di San Siro, le luci cominciano ad affievolirsi, una notte per alcuni di festa e per altri di agonie e di rimpianti comincia. Finisce il dramma della Champions, ne ricomincia un altro, quello della vita quotidiana, con i suoi alti e con i suoi bassi: ma un dramma che da stasera, per circa 70.000 persone sarà arricchito dall’incancellabile privilegio ed onore di essere stati spettatori alla più alta, più sacra celebrazione della religione laica più bella del mondo.

E scusate se è poco.

Atletico Real, Ronaldo rigore

…beautiful friend, the end

Potrebbero interessarti anche...

45 risposte

  1. ALBERTO ha detto:

    Pezzo bellissimo…stupendo….
    anche io ho sofferto per l’Atletico….
    lo sport e’ mervigliosamente bello…ma altrettanto crudele nella sconfitta…

  2. angyair ha detto:

    Bellissimo racconto.

  3. azazelli ha detto:

    Bravissimo GM, hai veramente trasmesso la passione che c’è dietro lo sport.

    Peraltro ti sei ascoltato dal vivo Bocelli, anche quello immagino sia stato davvero emozionante.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *