Alex Sandro è il migliore terzino sinistro al mondo?

La domanda appare chiara e semplice nella sua formulazione. Tuttavia, rispondere penetrando la questione ed affrontandone tutti gli aspetti è un compito gravoso, una vera e propria sfida: nulla di più stimolante. Affrontiamola.

Partiamo dall’analisi della domanda stessa: che cosa vuol dire “migliore”? Ecco, il discorso si arresta già qui – ma come, così presto? Sì, perché abbiamo subito colto il problema sul quale si è ostinatamente impuntata la filosofia occidentale negli ultimi 2500 anni: definire la realtà. Un’ossessione, sebbene non l’unica, che da Aristotele in poi ha rappresentato il tema più importante su cui focalizzarsi per quasi tutti i pensatori a sinistra del Mar Egeo, e che tutt’oggi permea la nostra visione del mondo. Difatti, è altamente improbabile che un occidentale cui capiti, fortuitamente, di leggere quest’articolo riesca a cogliere la criticità in ciò che è stato appena scritto: nella nostra concezione, che ha radici millenarie, è sufficiente definire linguisticamente una cosa per conoscerla.

Diamo allora per scontato – e non lo è affatto come vedremo più avanti – che basti definire cosa si intende con “migliore” per capire, e passiamo alla pratica: non dobbiamo far altro che scegliere i parametri. I numeri ci ammiccano, sembrano fare al caso nostro. Ma, precisamente, quali sono quelli giusti per valutare un terzino? Ecco il secondo, immenso problema: non esistono criteri universalmente condivisibili, ma solo criteri accettati da una comunità più o meno ampia. Questa constatazione di vago sapore costruttivista sottende la realtà in cui viviamo in innumerevoli ambiti e vale anche qui. C’è chi valuta di più i cross fatti, chi i gol, chi i contrasti, chi quel che gli pare. Si può anche tentare di unire tutti questi parametri: se avete letto una qualsiasi analisi comparativa seria non vi sarà sfuggita la molteplicità, la multidimensionalità delle statistiche usate. A tali massicce moli di cifre ci si può affidare o meno ed è indubbiamente grazie a questo che fioriscono i dibattiti più produttivi, perché supportati da dati oggettivi, non capricci individuali, che si può accogliere o rigettare nel loro significato ma mai negare. In altre parole, anche la più mastodontica analisi numerica richiede un atto di fede nella sua accettazione, perché poggia sull’ipotesi che i numeri scelti siano quelli giusti.

Facciamo un esempio.
Voglio dimostrarvi che Alex Sandro sia meglio di Marcelo e, per farlo, mi affido alla cara vecchia media: vi dico che nella stagione in corso (16/17), in media, lo juventino crea 1,95 occasioni a partita contro le 1,07 del madridista; aggiungo che in media vince 1,68 contro 1,27 contrasti e crea, sempre in media, 0,21 contro 0,20 assist. Dulcis in fundo, Sandro intercetta 2,32 palloni a partita e Marcelo appena 1,27. Dopo questa valanga di cifre (rubate a Squawka, in caso vi interessasse il fact checking nell’epoca della post-verità), vi capisco se siete storditi, ma è il momento di ragionare. Vi ho davvero raccontato tutto quel che potevo? Evidentemente no, ci sono molte altre statistiche, sta a voi decidere se ho selezionato quelle giuste. Non vi sarà sfuggito che, intenzionalmente, non ho riportato i cross riusciti, a naso un fattore piuttosto determinante per un terzino. Molte analisi puntano, effettivamente, sull’impatto che il marasma di dati ha sul lettore: la vera difficoltà sta nel fermarsi e riflettere, chiedendosi cosa vogliano dire tutte quelle statistiche, se siano esaustive e se manchi qualcosa di significativo. Il pensiero critico è imprescindibile, anche e soprattutto per te, temerario avventore che hai tenuto duro fino a qui. Perché la vera fatica deve ancora cominciare.

Spingiamoci oltre. Constatato che il valore di un’analisi comparativa tra più calciatori dipende dall’accordo che si ha sui parametri scelti, sopraggiunge il terzo e più duro ostacolo alla nostra indagine: come possiamo paragonare il contesto in cui i singoli giocatori operano? Il calcio è uno sport di squadra, eppure qui ci stiamo chiedendo se un singolo interprete sia meglio di un altro, come se dipendesse esclusivamente da lui. Non è così. Il rendimento di un giocatore è inevitabilmente collegato a quello della squadra, ed il problema è che questa influenza bidirezionale appare molto difficile da stabilire ed assolutamente impossibile da comparare. Procedendo nell’esempio, come si possono paragonare Juventus e Real Madrid, in modo che i loro due terzini abbiano un denominatore comune e possano essere giudicati a prescindere da esso? Per non parlare degli avversari incontrati nei differenti campionati.
I contesti sono incommensurabili tra loro, e questa evidenza fa saltare il banco una volta per tutte.

In base alle argomentazioni proposte, siamo giunti ad una conclusione: qualunque giudizio di valore (X è migliore di Y) è, in definitiva, un’approssimazione che uccide la complessità della realtà. Questo per tre ordini di motivi, riassumibili così: innanzitutto, non esistono criteri universalmente condivisibili su cui basarsi; dopodiché, perché i contesti in cui sono inseriti i giocatori sono incommensurabili tra loro; infine, perché il problema della definizione della realtà, questo demone socratico che ci perseguita dall’alba della nostra civiltà, ci preclude altre possibilità.

Su quest’ultimo punto è bene riflettere, perché è di sicuro il più ostico. Come detto in precedenza, per noi occidentali è sufficiente definire qualcosa per credere di conoscerlo: aspiriamo a saper dire cosa sia τόδε τι, “questo qui”, nella convinzione che ci basterà a capire la realtà. Ma se proviamo ad abbandonare il nostro orizzonte, scopriamo che in altre culture questo ragionamento è pura follia. Mi riferisco, per esempio, alla tradizione indù: la saggezza è saper vivere bene e saper morire bene e non conoscere, definire il mondo; è un sapere non solo intellettuale che coinvolge il mutamento della nostra vita sotto tutti gli aspetti; è qualcosa di più e di diverso rispetto alla filosofia intesa come puro sapere teoretico; è una via di salvezza dal dolore e non solo una via gnoseologica, conoscitiva della realtà. Il termine sanscrito “prajñā” ci aiuta a capirne l’intento, il senso pratico. Nelle Upàniṣad, i testi sacri (insieme ai Veda), non ci si interessa a cos’è la realtà, bensì a come distaccarsene senza negarla, indagando il rapporto tra l’assoluto (Bráhman, che infatti è considerato al di là di ogni determinazione, da non confondere col Dio cristiano) e l’uomo.
Questo approccio alla vita è proprio non solo dell’Induismo, ma anche del Buddhismo: nei suoi discorsi, il Gautama Buddha non propone un sistema filosofico che dia un ordine al mondo, o meglio non esclusivamente né principalmente. La sua è una proposta, molto pragmatica, per vivere in un certo modo e così raggiungere qui ed ora il nirvāṇa, cioè la libertà dal desiderio e l’estinzione (nirodha) del dolore. Egli non chiede di credere alle sue parole come i profeti biblici ispirati da Dio, ma dice “ihi passika”: vieni e vedi.

Venite e vedete, dunque, il calcio. Osservate le squadre, i flussi di gioco, ed anche i calciatori. Guardate Alex Sandro, la sua presenza in campo, il suo modo di toccare il pallone, la sua postura e la sua prossemica, la sua essenza calcistica. Riflettete su ciò che vi trasmette, sulle sensazioni che vi suscita, ascoltatevi e ditemi: alla luce di ciò ha ancora importanza chiedersi se sia migliore di altri? La nostra irrefrenabile tendenza a schematizzare il mondo per renderlo più accessibile e manipolabile ha evidenti ragioni evolutive ma, in ultima analisi, non svilisce forse la complessità di ciò che ci circonda e la pienezza delle emozioni che può regalarci un calciatore?

Giunge il momento di levare la maschera: Alex Sandro è solo un pretesto, perché il discorso intende essere una critica alla razionalizzazione estrema di un gioco che è molto di più dei numeri nei quali lo costringiamo. Ho scelto proprio lui perché intravedo una qualche qualità che le parole non riescono ad esprimere, ma che genera in me karuṇā, compassione, e la cui riduzione ad analisi alfanumeriche è per me un inaccettabile affronto. Ecco perché non ho sprecato lo spazio concessomi per impegnarmi in un’oculata ricerca di parole e numeri che spieghino la realtà in sé: non credo che ne abbiano il potere, né che sia questo ciò che conta davvero quando si parla di calcio.

Agli intrepidi che hanno resistito fino a questo punto, voglio esprimere la mia più sincera ammirazione. Considererò un successo il semplice fatto di aver mosso il vostro animo spingendovi ad una qualsiasi riflessione. In caso contrario, mi dispiace di non potervi rimborsare il tempo che avete qui perduto.

Ah, quasi dimenticavo: per me Alex Sandro è il migliore al mondo – qualunque cosa questo significhi.

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