Ha vinto Wade Phillips

Con Andrea Campagna (@campagnandrea33) ci eravamo lasciati una decina di giorni fa con una chiacchierata pre Super Bowl sull’intrigante matchup tra Difesa Denver vs Attacco Carolina. Come sia poi andata la partita lo sappiamo, molti gli hanno chiesto cosa sia successo dal punto di vista tattico e quindi con grande piacere è tornato su queste pagine per riflettere su quanto visto.

Wade Phillips, Ridi Wade!

Ridi Wade!

Il Super Bowl 50, come tutti sanno, è stato vinto dai Denver Broncos grazie soprattutto alla loro grande difesa, capace di annullare il running game dei Carolina Panthers come nessun altro aveva fatto in questa stagione. Nel mio precedente articolo avevo parlato della complessità e, soprattutto, della diversità (rispetto a quello che si vede normalmente in NFL) di questo gioco di corsa. E avevo detto che questo aspetto del gioco dei Panthers avrebbe potuto mettere in crisi la difesa di Wade Phillips, estremamente efficace contro gli attacchi NFL più tradizionali ma tutta da testare contro un attacco così differente da quelli precedentemente affrontati. Dopo aver parlato di alcuni elementi secondo me peculiari di questo attacco, mi ero chiesto cosa avrebbe escogitato Phillips per adattarsi ad esso. La mia risposta fu “Non lo so” e ora, dopo aver rivisto diverse volte la partita anche grazie al “Coaches Film” (ovvero il cosiddetto All-22, con le riprese dall’alto che mostrano tutti i giocatori in campo), credo di aver trovato la risposta.

Quindi cos’ha fatto Phillips di diverso rispetto al solito?

Beh, niente.

Intendiamoci, non è che non abbia fatto niente per preparare la partita… chi conosce il football sa che il cosiddetto ‘scouting’ (ovvero lo studio dei filmati degli avversari per capirne tendenze e scelte) è la base del gioco ad ogni livello di questo sport. Ovviamente il coaching staff di Denver ha fatto quel lavoro e ha fatto quello che si fa per ogni partita, cioè adattare il proprio playbook e le proprie scelte tattiche (in una parola, anzi due, il game plan) all’avversario. Quello che voglio dire è che Phillips non ha cambiato la filosofia della sua squadra andando anzi a rafforzare la pass-rush, cosa che contro Carolina sembrerebbe un paradosso ma che si è rivelata la scelta vincente.

A mio avviso (lo so, facile dirlo ora…) sono due i motivi alla base di questa scelta. Il primo, che colpevolmente avevo omesso nel precedente articolo, è che il quarterback di Carolina è sì uno straordinario atleta capace di guadagnare molte yard, o anche solo di essere una minaccia in tal senso, nelle corse chiamate e nelle option, ma non è quello che viene definito uno ‘scrambler’, cioè un QB che tenda ad improvvisare corse quando si trova sotto pressione. Al contrario, stiamo parlando di un giocatore che nelle azioni di passaggio (anche in play-action) predilige operare dalla tasca, come vuole la tradizione NFL. In questo senso, giocare contro di lui come si fa come contro gli altri QB della lega poteva essere una scelta vincente, seppur rischiosa. Il secondo motivo, per me il più importante, è che Phillips si è fidato ciecamente della superiorità fisico-atletica della sua unità difensiva, in particolare del front-7.

Ed è su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi maggiormente, anche alla luce del fatto che nel mio precedente articolo mancava completamente una considerazione che, erroneamente, avevo dato per scontata. Chi mi conosce, ma anche chi ha solo letto quel pezzo, sa quanto io ritenga importanti gli aspetti tattici nel football. Dal mio punto di vista sono proprio essi a rendere unico questo sport (e sono uno che di sport ne segue, e ne ama, tanti) e a renderlo così affascinante e complesso. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che in campo ci vanno i giocatori, come sono consapevole che per sua natura l’NFL enfatizza ed esaspera i matchup individuali e molto spesso sono questi ultimi a decidere le partite. Ecco, proprio sui matchup individuali Phllips ha basato il suo game plan. Lo ha fatto, e questo era abbastanza prevedibile, intasando il più possibile il box difensivo, ovvero l’area di campo di fronte alla offensive line avversaria. E lo ha fatto, cosa che invece mi ha colto abbastanza di sorpresa, usando moltissimo le coperture a uomo, sapientemente alternate a coperture a zona in un mix difficile da prevedere.

Una cosa interessante fatta da Phillips nell’ottica di intasare il box è stata usare quasi sempre la formazione 3-4 di base con i due outside linebacker che molto spesso partivano sulla linea di scrimmage, quasi come end di una 5-2 che a volte diventava addirittura una 5-3 grazie al supporto di una safety. Da queste formazioni l’accorgimento che spesso e volentieri ha adottato è il cosiddetto ‘Green-Dog Blitz’, cioè il mandare in pressione anche i difensori (linebacker o safety) che nella singola azione hanno la responsabilità di prendere in consegna i running back e i tight end se escono a ricevere. In poche parole: se l’uomo di propria competenza non esce a ricevere, il difensore esegue una sorta di blitz ritardato, andando in penetrazione nel backfield offensivo. Questo ha messo in crisi l’attacco di Carolina nelle azioni di passaggio anche perché i Panthers, come fatto per tutta la stagione, hanno spesso lasciato nella cosiddetta ‘max pro’ (con “pro” che qui sta per ‘protection’) uno, due o anche tre ricevitori eleggibili a bloccare per il QB. Grazie al Green-Dog anche sette o otto difensori di Denver (a seconda dei giocatori dei Panthers che rimanevano a bloccare) andavano a portare pressione sul QB e in generale a creare marasma sulla linea di scrimmage. Ma, soprattutto, questa tattica ha impedito a Carolina di effettuare raddoppi, cioè blocchi a due, contro i fortissimi rusher dei Broncos andando quindi ad enfatizzare l’importanza dei matchup individuali. Ovviamente, per il famoso discorso delle coperte corte, questo ha comportato che spesso la secondaria non abbia avuto aiuti nel coprire sui ricevitori. E per quanto buona sia la secondaria di Denver (ottima, senza alcun dubbio) serviva anche un po’ di complicità, chiaramente involontaria, da parte dell’attacco di Carolina. Complicità che come si è visto c’è stata, anche se non nella forma che molti hanno creduto… o hanno voluto credere. Ma ci tornerò su dopo.

Restando ai Green-Dog, la loro importanza si è fatta però sentire anche nei giochi di corsa diventando di fatto dei run-blitz, perché ovviamente quei potenziali ricevitori sono in questo caso bloccatori o portatori di palla. Questo ha spesso portato sette o anche otto giocatori dei Broncos ad attaccare la linea di scrimmage, cosa che ha permesso a uno o entrambi gli edge-rusher designati (cioè coloro che attaccano il QB passando all’esterno della linea) di fare contain esterno in profondità nel backfield offensivo, esattamente ciò che di norma non si fa contro squadre che hanno QB mobili o comunque abili nelle corse. Ed è stato quello a mio avviso l’elemento fondamentale perché, come spiegato nell’articolo precedente, molti dei giochi di corsa, diretta o in option, che rendono così peculiare l’attacco di Carolina hanno uno sviluppo orizzontale, almeno inizialmente. Ma in generale, e semplificando molto, la presenza di questi giocatori in contain ha chiuso linee di corse all’esterno, mentre linebacker e safety in run-blitz hanno chiuso quelle all’interno.

A questo punto sono intervenuti i famosi matchup individuali, tutti vinti (anzi, dominati) dai difensori dei Broncos. I giochi di corsa di Carolina non si sono sviluppati come avrebbero dovuto soprattutto perché non c’è stata praticamente mai la superiorità numerica al punto d’attacco dell’azione. E qui sta la vittoria più grande di Wade Phillips, cioè essersi fidato della superiorità dei suoi giocatori mettendoli in condizione di dominare la partita. Lascio ad altri l’analisi dello sviluppo di questi matchup individuali, personalmente lo trovo un aspetto fondamentale (e gustosissimo) durante la visione della partita ma non così interessante da studiare a posteriori. Questione di gusti, e di inclinazioni personali.

Ma… ovviamente c’è un ma. Nel football c’è sempre un ma. E quasi sempre si tratta della ormai proverbiale coperta corta. In questo caso, sovraccaricare il box e lasciare che i defensive back giocassero contro i ricevitori praticamente senza aiuto dei linebacker espone al gioco di passaggio degli avversari. Cosa ancora più evidente quando i Panthers si schieravano con tre wideout (ricevitori aperti) e Denver rispondeva mantenendo in campo la difesa base, quindi con solo quattro defensive back, una situazione che si è ripetuta molto spesso. Ed è qui che entra in ballo la complicità di Carolina a cui facevo riferimento prima. Un’opinione abbastanza diffusa è che il gioco di passaggio dei Panthers sia basico ed elementare, e in confronto a certi sistemi NFL la cosa può anche essere vera. Lo è soprattutto perché, come dicevo parlando della max pro, molto spesso sono solo tre e a volte anche addirittura due i potenziali ricevitori, cosa che nell’NFL moderna si vede molto di rado. Ma sia da una prima visione della partita che soprattutto dall’analisi successiva, quello che emerge è che, semplice o no, da un punto di vista tattico questo gioco di passaggio ha funzionato. Due-tre lanci fuori misura del QB su ricevitori liberi e, soprattutto, numerosi drop degli stessi hanno fatto la differenza, in negativo, per l’attacco aereo dei Panthers. Di drop ne ho contati 7 o 8, che già di per sé è un numero altissimo, e di questi un paio sono stati gravissimi perché arrivati nella red zone (e uno di questi ha portato a un intercetto). Quindi anche qui, come per l’interpretazione difensiva dei Broncos, tattiche e schemi devono lasciare il passo agli uomini che scendono in campo. Per tutto l’anno si è parlato della batteria dei WR di Carolina come del reparto più debole non solo all’interno della squadra, ma soprattutto a paragone con i corrispondenti reparti delle altre squadre NFL. E per tutto l’anno ci siamo meravigliati di come questo reparto abbia avuto prestazioni nettamente al di sopra delle attese. Ecco, a quanto pare nella partita più importante i nodi sono venuti al pettine e i ricevitori di Carolina sono stati quello che ci saremmo aspettati tutto l’anno. Con questo non voglio togliere responsabilità al QB dei Panthers, che come detto ha mancato alcune volte il ricevitore libero (in particolare in due casi clamorosi nel primo quarto) e in generale è stato meno preciso del solito nei lanci medio-lunghi, oltre a non aver saputo gestire una pressione a cui evidentemente non era abituato. Ma se il vostro esperto di fiducia vi ha detto che “i problemi del gioco di passaggio di Carolina in questa partita sono derivati dai limiti del suo quarterback che impongono un gioco troppo semplice”, beh… cambiate esperto. Come detto, da un punto di vista tattico il passing game dei Panthers ha funzionato. Poi i passaggi bisogna riceverli, e quello è un altro paio di maniche.

Ma le responsabilità di Carolina non si fermano qui. Chiaramente, per come giocano normalmente i Panthers, è stato il gioco di corsa ad essere l’anello mancante della catena, e qui parlo anche dell’aspetto tattico oltre che ovviamente dell’esecuzione. Il primo grande interrogativo è la preparazione della partita. Come dichiarato anche da alcuni difensori dei Broncos (dichiarazioni sempre da prendere con le pinze ma in questo caso direi affidabili), Carolina ha fatto quello che ha sempre fatto nelle partite precedenti, senza particolari variazioni o adattamenti. In due settimane di preparazione ci si aspetta qualche novità, qualche variazione negli schemi più utilizzati, qualche chiamata fuori dall’ordinario. E non mi riferisco a dei trick play, anche chiamati da Mike Shula in un paio di occasioni, ma proprio a una diversa interpretazione del proprio playbook. Invece niente, i Panthers hanno mostrato solo quello che i Broncos avevano già visto nei filmati in fase di scouting. Un vantaggio troppo grande per quella che già di suo è una grande difesa. Se aggiungiamo che, come detto, i matchup individuali nel box sono stati tutti a favore di Denver, il risultato è quello che abbiamo potuto vedere.

A questo punto andrebbe anche detto che il gioco di corsa di Carolina aveva cominciato ad ingranare nel secondo quarto, prima che un fumble dopo una corsa a lunga gittata lo fermasse con, forse, anche ripercussioni da un punto di vista psicologico. Ma dal mio punto di vista il lavoro del coaching staff di Carolina non è stato all’altezza della situazione. In questo senso l’errore principale è venuto nel secondo tempo, nel quale i Panthers non hanno cambiato minimamente il game plan e hanno continuato ad insistere con le infruttuose Inside Zone, la pietra angolare del loro gioco anche per le tante variazioni che possono portare, quando forse avrebbero dovuto puntare maggiormente sulle corse del QB e in generale a muovere un po’ di più il gioco. Anche sui passaggi, a mio avviso tentati con troppa frequenza, hanno insistito troppo nel gioco dalla tasca, che come detto è una loro caratteristica, quando magari muovere il QB avrebbe avuto il duplice effetto di scoraggiare un po’ la pass rush avversaria e allo stesso tempo aprire per il QB stesso spazi per correre nelle flat. Ma quale che fosse la scelta, nel secondo tempo mi aspettavo una reazione, un cambiamento, qualcosa. E invece non c’è stata alcuna variazione. Forse perché non c’era modo, in così poco tempo, di prendere contromisure alle scelte inaspettate del coaching staff difensivo dei Broncos. O forse, più probabilmente, perché il coaching staff offensivo dei Panthers non ne ha avuto la capacità.

In conclusione… volevo rispondere ai tanti che mi hanno chiesto di spiegare come ha fatto la difesa di Denver a vincere quel matchup che avevo identificato come potenzialmente pericoloso per loro e credo di avere esposto diversi elementi. Sicuramente non tutti, e qualcuno può anche essere opinabile se non addirittura da me mal interpretato. Però, come l’altra volta, la mia non vuole essere un’analisi tattica ma uno spunto di riflessione che ognuno è libero di sviluppare come vuole. Tornando al matchup in questione, se volessi riassumere con una parola perché l’attacco di Carolina non è riuscito a farlo suo userei un termine gergale americano: outcoached. E non ci provo neanche a tradurlo, ci siamo capiti.

Ha vinto la difesa di Denver. Ha vinto Wade Phillips. Ha vinto alla faccia mia e del mio precedente articolo… ma visto che da sempre provo una particolare simpatia per il figlio del grande Bum, a me sta bene così.

Wade Phillips dance

Wade dance

Grazie per aver letto.

Andrea Campagna

P.S. Visto che se ne è parlato molto… nonostante questo nessuno me l’abbia chiesto aggiungo che a me il Super Bowl 50 è piaciuto, e non poco. Non perché io sia un particolare amante delle difese, in realtà il mio background (in passato da giocatore e in minima parte da allenatore, ora da studioso del gioco) è prevalentemente offensivo. Ma credo che nel football, tolti gli special team che sono elementi troppo variabili, gli aspetti da valutare per giudicare un incontro siano quattro: i due attacchi e le due difese. In questa partita i due attacchi hanno fatto fatica, e non poco, ma le due difese sono state ottime, anzi direi eccellenti. Una addirittura super. E due elementi eccellenti/super su quattro per me valgono una bella partita. Non spettacolare, siamo d’accordo, ma stiamo pur sempre parlando di football, stiamo pur sempre parlando di sport. E per me nello sport lo spettacolo è un graditissimo accessorio, non una condicio sine qua non.

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