Memorie Europee – Portogallo 2004 – La Grecia di Otto Rehhagel

Cominciamo a raccontare gli europei. Lo facciamo in attesa della nuova edizione di Francia 2016, la prima a 24 squadre con una formula molto simile ai mondiali giocati tra il 1986 e il 1994, comprendente quindi il ripescaggio di quattro delle migliori terze e le gare degli ottavi di finale, mai apparse ad un torneo continentale. La Francia ospiterà gli Europei per la terza volta. Celebriamo il ricordo dell’era moderna, quella che possiamo raccontare, per celebrare i campioni, gli episodi, i simboli e le squadre di tre epoche. Lo facciamo soprattutto per celebrare i ricordi di tre decadi vissute sulle spalle, tra immagini, aneddoti e sogni d’un tempo. O, almeno, cerchiamo di raccontarli per come li ricordiamo. Per il resto c’è Wikipedia.

CAPITOLO 7 – La Grecia di Otto Rehhagel

Otto!

Otto!

Nell’agosto 2001 la Federazione Calcio della Grecia allontana dalla guida tecnica della nazionale Vassilis Daniil dopo l’ennesimo fallimento. La nazionale ellenica ha una difesa colabrodo e dopo la sconfitta interna contro l’Inghilterra, marchiata dalle reti di Paul Scholes e David Beckham, la probabilità di non partecipare al mondiale del 2002 diviene realtà. I greci sono apparsi all’europeo del 1980, in Italia, per la prima volta su un palcoscenico importante, evento bissato soltanto nel 1994, con la prima qualificazione ad un mondiale dal quale uscirono impiegando tutti e 22 i convocati ma realizzando zero punti e zero reti segnate. Da allora la Grecia è scomparsa dalle carte geografiche del calcio e, nel 2001, l’interesse sportivo del paese è più indirizzato verso l’organizzazione dell’Olimpiade del 2004, con il mondo che punta gli occhi verso Atene convinto del disastro organizzativo.

In questo contesto la federazione calcistica, rimasta senza una guida, si butta per la prima volta alla ricerca di un nome internazionale, qualcuno di esperienza e di spessore che possa portare un contributo di conoscenza al calcio giocato ai piedi del monte Olimpo. Si fanno i nomi di Marco Tardelli, Nevio Scala e Terry Venables ma, alla fine, si punta su un tedesco. Il nome che esce è quello di un certo Otto Rehhagel, ex difensore di basso profilo che ha saputo emergere in maniera eccellente come allenatore. I suoi gioielli rimangono lo spettacolare Werder Brema, che allenò per 14 anni, e che portò a due titoli nazionali e a una Coppa delle Coppe, vinta in finale coi francesi del Monaco allenati da un emergente Arsene Wenger. La storia narra che il Brema di Rehhagel giocasse un calcio spettacolare ed offensivo ma che molti ritenevano impossibile che il tecnico sarebbe riuscito a riproporre altrove dove difficilmente avrebbe avuto a disposizione così tanto tempo per lavorare, per costruire una macchina quasi perfetta. L’allenatore di Essen accettò la sfida Bayern Monaco ma le cose non andarono benissimo anche se riuscì a portare i bavaresi alla finale di Coppa Uefa; il rapporto tra lui e la società si interruppe prima di poter disputare la gara per il titolo che fu così vinta dai bavaresi con in panchina Franz Beckenbauer. Rehhagel pagò per il proprio carattere, lo scarso rapporto con alcuni giocatori, alcuni dei quali, come Jurgen Klinsmann, voluti esplicitamente da lui. L’ambiente era avvelenato e, come sempre, a pagare è il mister. Il tecnico accettò così di prendere il controllo del Kaiserslautern, reduce da una stagione paradossale che si era chiusa con la vittoria della Coppa di Germania e la retrocessione in seconda serie. È l’estate del 1996. Rehhagel prende in mano la squadra, ha di nuovo un ambiente capace di fidarsi di lui e delle sue particolarità, anche caratteriali.

Nel 1998, appena due campionati dopo, il Kaiserslautern è campione di Germania. Lo diventa con una potenza raramente vista sui campi di gioco. La squadra è veloce, potente, fisicamente al 110%, gioca a un livello altissimo per 90 minuti e anche più (almeno sei gare le vince nel recupero). Nessuno è in grado di tenere quel ritmo, per la prima volta, in Germania, una neopromossa vince la Bundesliga. Certi ritmi non si vedranno più, ma il Kaiserslautern chiuderà dignitosamente altri due campionati con la guida di Rehhagel e giungerà fino ai quarti di finale di Champions League. La situazione, però, tenderà di nuovo a precipitare, il clima diverrà incandescente, qualche presunta primadonna di troppo nello spogliatoio e l’allenatore dà le dimissioni al termine della stagione 1999-2000.

Ad agosto 2001 accetta la proposta della Grecia. Esordisce un mese dopo contro la Finlandia e ciò che si gli si para davanti è desolante: 5-1 per i finlandesi e una squadra totalmente da ricostruire. Otto si mette alla ricerca di nuovi giocatori da inserire in squadra. Stravolge l’assetto base e tiene i veterani migliori per garantirsi un minimo di esperienza internazionale. Rehhagel sa che nessun artista è in grado di riproporre le proprie opere d’arte se manca la materia prima, ma soprattutto conosce i segreti del calcio. Sa che la matematica, a questo strano sport, non la puoi applicare e sa anche che uno spogliatoio unito e l’esaltazione delle singole qualità, possono portarti lontano. Magari non potrai costruire dei cicli, ma potrai comunque sorprendere il mondo anche se in Grecia non sembrano chiedere né l’una né l’altra cosa.

Rehhagel rinnega sé stesso e toglie subito dalla testa dei greci l’idea di poter giocare come si gioca in altri paesi. Non avrà più lo spettacolare Werder Brema, né il potentissimo Kaiserslautern. Cerca giocatori fisici, alti, gente che possa dare sempre più di quanto non conceda il corpo, spilungoni in grado di sfruttare anche solo un singolo calcio piazzato incornando la palla decisiva. Si nasconde dietro alle formule moderne con un 4-3-2-1 che, nei fatti, è un 5-4-1. Blinda una difesa a quattro cui davanti piazza Kostas Katsouranis che ha giocato nell’under 21 greca ma fino al 2002 è sparito dalla circolazione delle selezioni nazionali. Lo mette lì, davanti alla difesa, con l’idea di coprire più che di impostare le uscite dalla propria trequarti. Nel AEK Atene non sarà raro vederlo come centrocampista offensivo, ha persino due piedi passabili. Ma a Rehhagel serve più la sua indole difensiva, quella che gli permetterebbe di fare tranquillamente il difensore centrale vecchio stampo senza sbavature.

Davanti a lui piazza due mediani trovati al dopo-lavoro falegnami: sono il veterano e capitano Theodoros Zagorakis e Angelos Mpasinas, un altro dall’indole difensiva abbastanza marcata. Insieme formeranno la coppia che farà legna per tutto l’inverno. Sempre in mezzo mette due giocatori un po’ più esterni, che sono il giovane talento Stelios Giannakopoulos e il gigantesco attaccante Angelos Charisteas (191 centimetri per 82 kg), unico vero appoggio alla sola vera prima punta, Zisis Vryzas, superstite dei mondiali del 1994 che dal 2000 gioca in Serie A, a Perugia. La squadra è fatta. Rehhagel cerca di mantenere stabile l’undici in ogni situazione, non ha troppo materiale cui attingere ed ha bisogno che il gruppo si amalgami intorno alla sua idea di “calcio greco”. Una calcio difensivo, cinico, legnoso, con una sola punta e quello che qualcuno oggi chiamerebbe falso nueve, ma col fisico da rugbista, abbastanza attaccante per poter creare pericoli e abbastanza fisico per poter giocare duro lontano dall’area di rigore. Rehhagel è tedesco, quindi pragmatico, e due cose le ha ben chiare: primo, nel calcio i miracoli esistono e, a volte, succedono proprio agli europei (vedi Danimarca 1992); secondo, se una squadra come la “sua” Germania, nel 2002, è arrivata ad una finale di Coppa del Mondo con le pezze al culo allora chiunque è autorizzato a provarci.

Ma il difficile, a volte, sta nel qualificarsi. Le qualificazioni sono lunghe, si svolgono su un biennio in cui tutto può accadere e cambiare più e più volte. La Grecia finisce nel Girone 7 con la Spagna e l’emergente Ucraina. Gli iberici sono strafavoriti per il primo posto, gli ucraini per il secondo con conseguente spareggio. La Grecia le affronta nei primi due incontri e perde 2-0 in entrambe le occasioni, in casa con gli spagnoli, fuori con l’Ucraina. Non siamo di fronte alla disfatta della Finlandia ma il lavoro da svolgere sembra impossibile.

Otto Rehhagel non molla, non lo farà mai. Insiste sui suoi uomini e sullo schema che ha disegnato per loro. I suoi giocatori arrivano da situazioni tattiche spesso molto diverse adottate nei club di provenienza e, forse, faticano a entrare nella logica ultra difensiva. Ma qualcosa comincia ad andare a posto. Quattro giorni dopo la sconfitta con l’Ucraina, ad Atene arriva l’Armenia, un ottimo avversario per provare subito a rifarsi. I Greci vincono 2-0 e cominciano a mandare a memoria molte delle lezioni del loro CT. Ad aprile, siamo nel 2003, la “Nave pirata” espugna Belfast, ancora 2-0. Gli ellenici ci stanno prendendo gusto. In giugno vanno in Spagna, la vera prova del nove. Rehhagel piazza le barricate, la squadra è oliata a meraviglia, l’occasione davanti capita ed è sfruttata: 1-0 per la Grecia. Vinceranno di nuovo, e sempre 1-0, con Ucraina, Irlanda del Nord e in Armenia. Dopo l’avvio a zero i greci ne vincono sei su sei senza più subire reti e arrivano primi nel girone. Ai playoff va la Spagna che eliminerà la Norvegia. Per la seconda volta nella sua storia la Grecia è a una fase finale dell’Europeo, ventiquattro anni dopo la prima. È considerata la squadra materasso dell’edizione insieme alla esordiente Lituania, roba da quotare 100 a 1. Ai sorteggi della fase finale, che si svolgerà in Portogallo, finisce nel Gruppo A dove troverà, di nuovo, la Spagna. La Russia. E proprio il Portogallo, con cui condividerà il match d’esordio. La salita è ripidissima.

Il Portogallo è alla sua prima da organizzatrice. L’evento è sentitissimo in patria e la squadra sicuramente tra le favorite. Il calcio portoghese è famoso per l’intelligenza tattica e i piedi buoni, considerato un po’ il padre, grazie ai Conquistadores, di quel talento brasiliano che sta al di là dell’Atlantico, affacciato alla finestra opposta e che nel DNA porta con sé proprio la storia e il sangue portoghesi. Una storia che nei secoli si è incrociata, è divenuta meticcia e sembra aver lasciato al solo popolo della samba il tocco magico del fùtbol. La tradizione portoghese è legata al grande Benfica degli anni 60 e alle vittorie del Porto in epoche più recenti ma è soprattutto, e inevitabilmente, legata al nome di Eusebio. La Perla nera, nel 1966, ai mondiali inglesi, sconvolgerà il mondo portando tutta la propria classe ai piedi della Coppa Rimet. Segnerà nove gol, di cui due al Brasile di Pelè, e rifilerà addirittura una quaterna alla Nord Corea, che aveva appena giustiziato l’Italia. Si fermerà in semifinale contro i padroni di casa. Ma dopo di lui, dopo il Re del Portogallo, nessuno si è mai anche solo avvicinato a tanta potenza.

Eusebio, la perla nera

Eusebio, la perla nera

La nazionale portoghese del nuovo millennio può però puntare su tanto, tantissimo talento. È la squadra dell’astro nascente Cristiano Ronaldo, in quel preciso momento un tantino sopravvalutato e ben lontano dall’essere quel robotico prototipo del calcio futuristico che è oggi. C’è il magnifico Luis Figo, esterno destro dotato di un dribbling commovente e di un piede meravigliosamente gentile. Figo è il capitano, è il leader assoluto, atleta e uomo intelligente dotato di rara materia grigia tattica. Ma è anche il Portogallo di Manuel Rui Costa, altro trequartista di caratura internazionale, di Deco, un brasiliano che ha cambiato passaporto, di Maniche e di Nuno Gomes. È una squadra di fantasia, bilanciata, ben piazzata in ogni reparto e in panchina ha Felipe Scolari, fresco vincitore della Coppa del Mondo coi suoi Carioca. I portoghesi hanno davanti un’occasione storica, sono forti e giocano in casa e, probabilmente, hanno un allenatore che li può allontanare da quel tremendo ed infruttuoso possesso palla che ormai da decenni fossilizza il calcio della nazionale iberica. Ma arrivare in fondo non sarà una passeggiata.

Euro 2004 non sarà avara di sorprese, al netto della inattesa conclusione finale. Dal Gruppo D vengono immediatamente eliminati i vicecampioni del mondo della Germania che per la seconda edizione consecutiva sono fuori dal torneo al primo turno; i tedeschi non vinceranno nemmeno una gara e verranno fermati sullo 0-0 addirittura dalla Lituania. Passeranno Paesi Bassi e la temibile Repubblica Ceca, che dopo la parentesi del 1996 sta rimettendo insieme una formazione di tutto rispetto e da molti è vista come una semifinalista certa. La squadra di Pavel Nedved esce a punteggio pieno dal girone battendo 3-2 anche l’Olanda dopo essere andata sotto per 2-0 nei primi venti minuti. Il Gruppo B lo dominano Francia ed Inghilterra, entrambe reduci da una deludente parentesi mondiale in Asia. Lo scontro diretto, all’esordio, lo vince clamorosamente la Francia che, dopo essere andata in svantaggio grazie ad un gol di Frank lampard nel primo tempo la ribalta con doppietta del suo uomo simbolo, Zinedine Zidane, che segna al 91° e al 93° (su rigore). I britannici riusciranno però a rifarsi con un Wayne Rooney in piena estasi da grande impresa che rifilerà due doppiette a Svizzera (3-0 finale) e Croazia (4-2). La Francia vincerà il girone.

Poi c’è l’Italia. Ovvio. Passata a Giovanni Trapattoni dopo l’amaro Golden Gol di quattro anni prima, la squadra azzurra non passa un gran momento. Il mondiale del 2002, al di là delle scelte arbitrali, è stata una pena. Gli Azzurri hanno vinto la gara d’esordio per poi non centrare più i tre punti. La corsa finirà agli ottavi, altro Golden Gol, contro la Corea del Sud, dove prima dei fischi sbagliati andrebbero riviste le immagini di Bobo Vieri a porta vuota, il controllo di Christian Panucci sull’azione del pareggio coreano e la marcatura di Paolo Maldini su quella del 1-2. Un disastro, voto bassissimo come per Byron Moreno, l’ormai celebre arbitro di quella disgraziata serata.

All’Europeo il Trap ha l’occasione di rifarsi, ma la sua idea di calcio è sempre quella. Difendersi e colpire, portare a casa il minimo del massimo. All’esordio con la Danimarca va male. La squadra gioca un pessimo calcio in una partita noiosa che passa alla storia per lo sputo di Francesco Totti ad un avversario. Finisce a reti inviolate. In gara 2, con la Svezia, non va meglio. Sazi del gol di un brillante Antonio Cassano, gli azzurri si concentrano sul difendere il prezioso punto di vantaggio. Certezza che crolla nei minuti finali quando un certo Zlatan Ibrahimovic risolve una mischia con un colpo di tacco in acrobazia, colpendo in modo impensabile una palla vagante. La sfera finisce sotto l’incrocio dove un appesantito Vieri, incapace di staccarsi da terra, non riesce ad opporsi di testa. Il pari con gli svedesi mette l’Italia in una pessima situazione: deve sì battere la Bulgaria, ma deve soprattutto sperare che Danimarca e Svezia, semmai decidessero di pareggiare, lo facessero segnando meno di due gol. L’Italia, di nuovo non senza difficoltà, la spunta sui bulgari (2-1) ancora grazie a Cassano. Ma a Oporto accade quello che tutti si aspettano. Nonostante la rivalità del derby scandinavo, nonostante la proverbiale onestà dei popoli nordici, nonostante lo spirito sportivo che aleggia costante a questi eventi, Svezia e Danimarca finisce 2-2, con pareggio al minuto 89 degli svedesi, giusto per stare sul sicuro. È il biscotto in salsa europea. È l’eliminazione degli Azzurri, prima vera causa del proprio male. Il Trap lascerà e, al suo posto, arriverà Marcello Lippi. Ma quella è un’altra storia.

Quello che in realtà incuriosisce, ora, è capire come il Portogallo affronterà il torneo di casa. L’esordio con i Greci puzza di goleada lontano un chilometro. Un buon modo per aprire le danze. Classico match da pringles e birra da discount. E infatti, al 7°, Karagounis porta avanti la Grecia. È presto, troppo presto. Rimonta e goleada, avanti così! Spettacolo garantito. Al 51° Basinas punisce dagli undici metri un Portogallo impacciato e pasticcione. Due a zero Grecia. Davvero? Davvero. Ronaldo segnerà, ma troppo tardi. L’esordio ha regalato fuochi d’artificio, ma non quelli che ci aspettavamo. Gli ellenici a sorpresa fermeranno anche la Spagna (1-1) rimontando lo svantaggio iniziale. Ora la situazione è complicata. Il Portogallo ha battuto la Russia ed ha 3 punti, la Grecia e la Spagna 4. Il derby iberico può essere fatale per i padroni di casa che riescono però a spuntarla con Nuno Gomes a inizio ripresa. La Grecia crolla con la Russia, in un quarto d’ora circa è sotto due a zero. La magia è finita. Vryzas al 43° accorcia e segna un gol che ha un peso al momento non calcolabile. Né Grecia né Spagna riescono a impattare il risultato ma il gol dei greci ristabilisce la parità nella differenza reti con però più gol segnati delle Furie Rosse. Ai quarti vanno i ragazzi di Otto Rehhagel.

In principio fu Vryzas....

In principio fu Vryzas….

La Fifa ha abolito il Golden Gol nel 2002 ma, non sazia della propria schizofrenia, si è inventata il Silver Gol: quando la toppa è peggio del buco, diremmo dalle nostre parti. Sostanzialmente il gol d’argento si differenzia da quello d’oro perché non interrompe la partita ma lascia che il tempo supplementare in corso giunga alla fine. Quindi, una squadra che segni nel primo tempo supplementare, dovrà trovarsi ancora davanti alla fine dei primi quindici minuti per interrompere la gara. Se, invece, segnasse nel secondo tempo, nulla cambierebbe rispetto alle tanto amate regole pre gol di ogni tipo di metallo. Anche questa innovazione piace poco e, soprattutto, non trova molto senso visto che, concretamente, vale solo nei primi quindici minuti. Ai quarti il livello di calcio non è dei migliori ma, quanto meno, lo spettro del Silver Gol non si palesa. Le due nazionali del biscotto rifilato all’Italia se ne vanno a casa. La Svezia esce ai rigori contro l’Olanda (sbaglierà uno dai piedi buoni: Ibra) dopo un misero 0-0 nei centoventi minuti di gara. I danesi vengono spazzati via dalla forte Repubblica Ceca (3-0) con gol del gigante Jan Koller e doppietta dell’attaccante del Liverpool Milan Baros che chiuderà come capocannoniere del torneo.

Portogallo-Inghilterra regalerà una partita intensa e divertente coi sudditi di Elisabetta II di nuovo beffati ai rigori. Michael Owen porterà subito avanti la nazionale dei Tre Leoni che reggerà il vantaggio fino al gol di Postiga al minuto 83. Colpo di testa in solitaria a due passi dalla porta, Sven Goran Eriksson rimane impietrito in panchina, il Portogallo, una intera nazione calcistica, risorge. Al 110° minuto Rui Costa segna un gol capolavoro: parte da tre quarti, ha spazio per avanzare, giunge al limite dell’area e fulmina il portiere piazzando la palla sotto l’incrocio con potenza inaudita. Sven Goran Eriksson si dispera e mette le mani tra i pochi capelli rimasti. Il Portogallo esplode di gioia. Una intera nazione calcistica esplode di gioia. Cinque minuti dopo Frank Lampard rimette tutti a sedere. Si va ai rigori. Anche qua sbagliano piedi buoni (David Beckham, imbarazzante pallone sparato in orbita, e Rui Costa, più basso di Beckam, ma comunque altino), ma la parentesi eroica spetta al portiere iberico: Ricardo Alexandre Martins Soares Pereira. Al settimo rigore si presenta Darius Vassell, attaccante dell’Aston Villa. Vassell calcia alla propria destra, Ricardo, che si è levato i guanti per qualche strana ragione, respinge a mani nude. La folla impazzisce. Ricardo si gira verso la curva e urla come un folle. Poi, come nulla fosse, prende il pallone, lo porta sul dischetto e calcia il penalty decisivo. Botta angolatissima, secca, con pallone tenuto praticamente rasoterra. Un rigore da vero attaccante, un rigore che vale la semifinale. Darius Vassell, per la cronaca, non verrà mai più convocato in nazionale.

La vera sorpresa giunge però da Francia-Grecia. La squadra di Otto Rehhagel ha passato il turno ed è pronta ad esprimere il calcio che l’ha portata fino alla fase finale: guardia alta e sciabolata. Coi transalpini i greci si chiudono ed attendono l’attimo. Le bocche di fuoco dei francesi sono bagnate, il grande talento di una squadra protagonista del calcio mondiale ormai da otto anni e che ancora avrà qualcosa da dire nel futuro più prossimo, si spegne. Al 65° il capitano dei greci Zagorakis parte in fuga sulla destra, innescato da un lancio proveniente da metà campo. Nell’avvicinarsi all’area un terzino francese gli si fa incontro; Zagorakis lo anticipa con la punta del piede e alza il pallone a scavalcarlo mettendolo fuori dai giochi. Il numero 7 greco lascia scendere la palla e la controlla con un tocco a seguire indirizzandosi verso l’interno dell’area dal lato lungo. Un altro difensore lo fronteggia e attende la giocata. Zagorakis alza la testa, si aggiusta il pallone e guarda in mezzo. In area ci sono cinque difensori dei Blues ma sono sbilanciati; i Greci si sono lanciati in avanti e, quando guarda in mezzo, Zagorakis vede quattro compagni di squadra. Un paio stanno vicini al limite dell’area, uno giusto dietro di lui. Dalle retrovie arriva veloce l’inserimento di un greco che taglia sul primo palo. Un difensore lo segue a vista, ma l’ultimo dei marcatori francesi è bloccato tra l’avversario più lontano dalla porta, che dal limite comincia ad avvicinarsi, e Angelos Charisteas che ha già preso posizione tra il dischetto di rigore e il limite dell’area piccola. Il suo capitano lo serve. Gli mette il pallone sulla testa, è perfetto. Charisteas stacca da terra in modo imperioso e colpisce il pallone più forte che può. Lo spara in porta velocissimo. Fabien Barthez accenna un movimento ma è spiazzato, la palla si insacca sul secondo palo. La Francia è in ginocchio e lì rimane sino al 90°. La Grecia è alle semifinali.

A quel punto non puoi non simpatizzare per loro, per i greci. Non giocano bene, non sono qualitativamente di livello, ma sono la classica squadra scarsa che, pur non diventando in automatico squadra simpatia, almeno può puntare a rompere la dittatura dei soliti nomi. Dittatura che, di fatto, è praticamente interrotta visto che, tra le ultime quattro, soltanto l’Olanda è stata campione d’Europa. Le altre non hanno mai vinto nulla. Il Portogallo si trova di fronte proprio gli Oranje e gioca la partita forse più decisa del proprio europeo. Rischia pochissimo, si muove con disinvoltura, attacca gli spazi. Da un corner di Deco al 26° Ronaldo, il figliol prodigo, la sblocca di testa. Gli olandesi hanno una buona chance per pareggiare che sprecano calciando alto, ma è di nuovo Cristiano Ronaldo ad avere un’occasione d’oro che però spreca colpendo il corpo di Edwin Van Der Sar quando ha tutta la porta davanti. Pochi minuti dopo Figo entra in area da destra, magheggia un po’ con i piedi, trova lo spazio per calciare con una finta, la palla prende un giro perfetto e bacia il palo. Sarebbe stato un gol capolavoro ma il capitano dei rossoverdi rimane all’asciutto. Il capolavoro, allora, lo inventa Maniche a inizio ripresa. Corner corto al vertice sinistro dell’area, il centrocampista del Porto si aggiusta la palla e la piazza sull’angolo lontano con una sberla precisa e potente che schiaffeggia il legno interno e si insacca. Il Portogallo è in totale controllo. Un’autorete di Andrare rimette in carreggiata i Paesi Bassi che però faticano a creare. Un pallone clamoro capita su un tiro cross da una punizione che taglia tutta l’area ed esce sfiorando il secondo palo. Non basta, il Portogallo è in finale. Finalmente la Seleccao das Quinas ha la grande occasione. Davanti al proprio pubblico. Davanti al mondo tutto, almeno quello pallonaro.

L’avversario scontato sembra essere la Repubblica Ceca in cerca di una rivincita di quel tremendo finale del 1996, quando Oliver Bierhoff gli soffiò in un attimo una coppa che sembrava già in tasca. Non so dire con certezza se questi cechi siano più forti di quelli del 1996, se abbiano potenzialmente più talento. Certamente hanno più consapevolezza, Pavel Nedved è, in quel momento, uno dei giocatori più forti del mondo, premiato col Pallone d’oro. Giocano senza timore reverenziale, si sentono parte dell’elite del calcio che conta e non hanno tutti i torti. I greci hanno già fatto troppo, è impensabile battere anche la formazione dell’est europa dopo aver cappottato la Francia. Pronti-via e i cechi, stampano un pallone clamoroso sulla traversa con tiro al volo da fuori. È notte… i greci non ne escono più. Non sono spartani loro. O forse sì? Comunque sono meno di trecento il che rende tutto meno epico. Cross in mezzo dei cechi, palla respinta con affanno, sbuca un tizio in maglia bianca, entra in area scaraventa con tutta forza in porta. Troppo centrale, tiro deviato in angolo da Antonis Nikopolidis. Ci prova Koller di testa, troppo debole. Altro gran tiro, stavolta è Marek Jankulovski a colpire a botta sicura: il bel brizzolato Nikopolidis la mette di nuovo in corner. Sull’azione Pavel Nedved si infortuna, il capitano abbandona il campo. Lascia il gioco in buone mai, la sua squadra è completamente padrona del campo. Gli unici tacchetti che hanno calpestato l’erba della parte ceca sono quelli di Petr Cech che passeggia in cerca di quadrifogli nella propria area di rigore.

Secondo tempo. Il cronometro gira sempre più veloce, il risultato non si sblocca. La Grecia ha tremato più volte ma è ancora lì, per fortuna, per bravura del portiere, per il destino. Gli ellenici non riescono a mettere insieme nulla che assomigli ad una giocata, sono troppo inferiori. Subiscono opponendo muscoli e corse a intelligenza e qualità. Koller chiede un rigore, forse c’è, ma l’attaccante è troppo grande e grosso per cadere in quel modo ed essere credibile. Poi il gigante buono si divora l’uno a zero dopo uno scambio magnifico in area. Milan Baros, poco dopo di lui, approfitta di un errore a metà campo dei greci, finalmente è la Repubblica Ceca ad avere un contropiede: la conclusione, non difficilissima, almeno per centrare lo specchio, dopo un paio di finte, è alla sinistra del palo. Come per Koller. Supplementari. È subito la Grecia a provarci e Cech, che pensava che i greci nemmeno esistessero se non sui libri di Omero, deve uscire a valanga per evitare l’assurda beffa. Poco dopo respinge un colpo di testa ravvicinatissimo, quello che definiremmo chiara occasione da gol. Petr Cech comincia a pensare che i greci non siano solo Iliade ed Odissea, ma anche una squadra di calcio. E, forse, lui e molti cechi, in quel momento, cominciano ad avere un pessimo presagio.

Minuto 105, angolo per la Grecia nato da un lunghissimo lancio innocuo su cui la difesa di Cech tentenna un po’ troppo obbligandosi a liberare oltre la propria linea di fondo. Vassilis Tsiartas va alla bandierina e spara il pallone sul primo palo. Un difensore salta a vuoto, Traianos Dellas e un suo compagno, dietro di lui, al limite dell’area piccola, si catapultano in avanti, reagiscono magicamente al liscio dell’avversario. Dellas si trova il pallone sulla testa dopo che il compagno non è riuscito a toccarlo, lo spinge d’istinto in porta, Cech non si muove nemmeno. Sotto gli occhi sbalorditi di tutti i paganti, i non paganti e le amiche e amici telespettatori, la Grecia è in vantaggio. La beffa più incredibile si consuma in quel momento, a Oporto, nelle semifinale dei campionati europei targati 2004. Le immagini che seguono gli sguardi del pubblico e della squadra ceca sono impietose, ingiuste, immeritate. Sono parte dello sport, certo, di uno sport crudele, in questi casi. Un altro tedesco beffa la Repubblica Ceca in una delle più immeritate vittorie mai viste a questi livelli. Otto Rehhagel ha colpito. Il tempo supplementare finisce e il gol di Dellas diventa il secondo e ultimo Silver Gol della storia. Il primo lo aveva segnato Tomas Galasek, centrocampista dell’Ajax in un preliminare di Champions League nel 2003 contro il Graz. Inutile dirvi che il destino c’entra ancora, che ogni storia è figlia di un insieme di brevi racconti di ognuno di noi. Tomas Galasek sul passaporto ha scritto Repubblica Ceca. Se lo cercate, nella calda e dannata notte di Oporto, il 4 luglio 2004, tra i giocatori increduli, e in lacrime, è quello con il numero 4.

C'è Silver e Silver....

C’è Silver e Silver….

Resta la finale, dove ormai nulla è scontato. Il Portogallo è favorito, è più forte, ma tutto questo ormai non conta più niente. Non serve nemmeno pensare che all’esordio i portoghesi dovrebbero aver assimilato la lezione. Non serve nemmeno il tutto esaurito di Lisbona. Non serve niente. La Grecia andrebbe schiacciata, spazzata via dal campo, ma sembra diventato impossibile. Rehhagel ha ottenuto quello che voleva e ormai tifiamo per lui. Quando gli fanno notare che il calcio della squadra non è troppo estetico lui risponde semplicemente che, un buon allenatore, “tira fuori il meglio di quanto ha disposizione”. Ha ragione. Da vendere. E lui più di così non poteva tirare fuori. La finale è una partita mediocre. Per la prima volta si affrontano due squadre allenate da stranieri. Chi vince porta a casa il primo titolo della propria storia e pensare alla Grecia, ai danni subiti da tante grandi nazionali del passato, puzza davvero di storia da non raccontare.

Il Portogallo è decisamente meno brillante rispetto alla gara con gli olandesi, è come se si sentisse vittima sacrificale di un destino scritto dagli dei dell’Olimpo che, dopo secoli e secoli, hanno rimandato in terra i propri figli per trionfare nell’ultimo grande evento che precede le Olimpiadi di Atene così da celebrarle a dovere. Le Olimpiadi degli dei. La partita si addormenta un po’. Così il Portogallo non può vincerla, deve alzare il ritmo, aggredire. Corner per la Grecia, palla in mezzo. È il 57°. Charisteas si infila, Ricardo esce male, il marcatore della punta greca si fa sovrastare. Un “gol!” strozzato mi esce dalla gola. Stanno vincendo i più deboli. Forse non è giusto, non è piacevole guardare la Grecia, questa Grecia, vincere. Ma io sono contento. Siamo in tanti ad esserlo, c’è una cenerentola che sta indossando la corona. Come e più sorprendentemente della Danimarca nel 1992. In questo europeo la formula prevede più partite, più incroci da battere, più destini da modificare. Il Portogallo non reagirà più. Il triplice fischio sancirà quella che rimane come una delle più grandi sorprese di sempre nello sport mondiale. Otto Rehhagel corre in campo ad abbracciare i suoi ragazzi. E’ perfettamente conscio dell’impresa compiuta: ha portato la coppa alla squadra con meno talento ad aver mai vinto una competizione di questo livello.

...infine fu Charisteas!

…infine fu Charisteas!

La stampa internazionale si dovette inginocchiare alle gesta di quella Grecia, ma l’inchiostro si sprecò soprattutto in lezioni sullo spirito della bellezza, sulle critiche al difensivismo, sulla fortuna, sul fatto che certe gesta restano irripetibili. Nessuno di quelli che scriveva, però, ha mai fatto ciò che ha fatto Rehhagel al quale, per inciso, non fu mai chiesto di aprire un ciclo, anche se lui portò comunque la sua squadra anche alle fasi finali di Euro 2008 e del mondiale sudafricano del 2010. La sua Grecia di Euro 2004 deve essere considerata per quello che è: una macchina assemblata in modo perfetto, come una Formula 1, che poi durante il mondiale ha avuto bisogno delle strategie ai box giuste, della pioggia quando era il momento e del sole quando serviva sole. Ci sono cose che un allenatore non potrà mai controllare in una partita, ma il modo in cui quella nazionale fu messa insieme è sinonimo di perfezione. Ogni tassello era al suo posto e tutto girava alla perfezione. Se prendiamo il biennio in cui si progetta un torneo come questo, la Grecia perse due sole partite su quattordici, ne pareggiò una, le altre le vinse. Subì gol in solo cinque occasioni, per nove volte la sua porta rimase inviolata. Gli 1-0 furono sette. Chi pensa che tutto questo sia un caso sbaglia. Non esistono bienni di casualità, ma percorsi chiari, progetti.

Dietro a imprese come questa c’è l’intelligenza di un allenatore che ha messo testa ed esperienza a disposizione di una causa, che ha capito al volo che non doveva essere lui a modificare il calcio greco ma che sarebbe stato il calcio greco a modificare il suo approccio al gioco. Abbandonati rapidamente i metodi con cui stupì per due lustri la Germania della Bundesliga, Rehhagel si era messo a disposizione di un sistema in cui doveva solo inserire le giuste geometrie e sfruttare ogni centimetro libero. Non sarà stato bello da vedere ma è stato comunque grandioso. La fortuna è stata lì ad aiutarlo, a volte in modo esagerato, come spesso capita a chi vince. E se di un Europeo non troppo esaltante rimangono poche giocate e una formazione tutto sommato mediocre a vincerlo, nessuno potrà mai cancellare l’impresa dei greci, la storia leggendaria fatta senza dei, lance e spade, ma con la saggezza di un uomo che seppe attirarsi le invidie di Zeus tanto era stato perfetto. Un uomo venuto dalla Germania. Uno straniero di Grecia. Otto Rehhagel.

The Champiooooons

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CAPITOLI PRECEDENTI

1 – Italia 1980, Rummenigge

2 – Francia 1984, Diavoli Rossi

3 – Germania Ovest 1988, Kieft

4 – Svezia 1992, Danish Dynamite

5 – Inghilterra 1996, Gazza

6 – Euro 2000, Golden gol

CAPITOLI SUCCESSIVI

8 – Euro 2008, La Rumba de Espana

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17 risposte

  1. Teo ha detto:

    Ho sempre considerato e sempre lo farò quello dei Greci uno dei più grandi scandali tecnico/tattici della storia del calcio.

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