Calcio e post-verità

Post-verità: per Wikipedia quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza, perché “la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi effettiva sulla veridicità o meno dei fatti reali”. Nel dizionario Treccani,  argomentazione caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica.

Due definizioni chiare ed inequivocabili.
Il tema è uno dei più interessanti e dibattuti attualmente, e vale la pena di considerarlo da una prospettiva particolare: che relazioni ha il fenomeno della post-verità con il mondo del calcio? Questa è la domanda a cui tenteremo di rispondere.

Storicamente, il termine “post-truth” viene coniato oltreoceano nel 1992 per descrivere la copertura mediatica di eventi importanti, dallo scandalo Watergate alla guerra del Golfo, e viene ripreso a metà anni 2000 per raccontare l’amministrazione Bush. Solo successivamente, in tempi recenti, al vocabolo viene affidato anche l’onere di spiegare fenomeni conseguenti alla diffusione massiva di Internet.

Ma tralasciando l’aspetto storico, concentriamoci sul concetto: il succo del discorso è che i fatti hanno perso importanza, perché il processo di formazione delle opinioni si basa sull’emotività più che sull’analisi razionale. Dove sta la novità? Ciò che le definizioni descrivono, a ben vedere, non è altro che un assioma del tifo, per sua stessa natura originato, motivato, nutrito da sentimenti e poco sensibile alla ragione. L’etimologia della parola lo sottolinea: il verbo greco τύφειν (týphein) significa letteralmente fare fumo, ardere, da cui il senso metaforico di offuscare i sensi e perdere lucidità. Questa è una condizione necessaria che ogni tifoso può riconoscere in sé stesso, ed è ciò che rende così ardui, a chi soffre i naufragi delle passioni, gli sforzi per raggiungere un punto di vista equilibrato. Nessuno si sorprende, infatti, se l’opinione di un tifoso viene difficilmente scalfita dai fatti. Lo stupore dei politologi e di chiunque trovi strano che tutto questo valga anche per questioni ritenute più importanti del calcio deriva da un errore di fondo, ovvero dal considerare gli esseri umani molto più razionali di quanto non siano. Ciò è una conseguenza della crociata alle passioni, una fisima antichissima e propria di culture distanti tra loro, che rinnova in ogni membro della società civile l’appello alla rinuncia a tutto ciò che è irrazionale: castrando l’emotività, si crede di purificare l’uomo mettendolo in condizione di giudicare oggettivamente la realtà senza alcuna interferenza. Quest’illusione, corroborata dall’idealizzazione plurisecolare della politica (per Aristotele, la scienza che ha per oggetto il bene dell’uomo), ha alimentato l’idea di esseri umani compartimentalizzati, dai quali ci si aspetta travolgente emotività allo stadio ed encomiabile raziocinio alle urne.

In altre parole, la post-verità pretende di assurgere a novità del nostro tempo poiché sembra impossibile che gli esseri umani si formino opinioni sulla base dell’emotività e non le cambino nemmeno di fronte ai fatti che le sbugiardano. Posto in questi termini, sembra che l’attuale interesse per il fenomeno sia campato in aria, ma non è così. Nel tifo è da sempre presente una forma antesignana di post-verità, ma dinamiche inedite nella storia dell’umanità stanno aprendo nuove vie alle sue manifestazioni. Di esse ora ci occupiamo.

Internet: è banale sottolineare che la sua diffusione abbia provocato cambiamenti senza precedenti. Inevitabilmente, in questa sede prenderemo in considerazione solo una piccola, infinitesimale parte di queste influenze sul nostro vivere. In particolare, ci occuperemo di come Internet abbia stravolto per sempre l’informazione. Questo è un punto centrale, e può tornarci utile metaforizzarlo.
Il web si presenta come un mercato dalle possibilità illimitate, con bancarelle sconfinate traboccanti di ogni genere di beni. Ognuno di noi non fa altro che scegliere, secondo il proprio gusto personale, quello che gli interessa. Libertà, assoluta libertà. Almeno in via di principio: quello che realmente accade nel web, invece, è influenzato dalla silente tirannia degli algoritmi, i quali strutturano ed indirizzano in maniera pervasiva la realtà alternativa – o virtuale – che ognuno crede di esperire.

Facciamo un esempio: Facebook. Un eccellente articolo ha affrontato nel dettaglio le conseguenze, evidenti, dell’azione dell’algoritmo (EdgeRank per gli amici) nel più importante social network: proponendo esclusivamente contenuti che siano in linea con gli interessi dell’individuo, anziché mettere in contatto con il diverso, crea un mondo polarizzato in cui ognuno non può che rafforzare le proprie opinioni, piuttosto che metterle in discussione. Se sono convinto che la Juve ruba (o che è vittima di un complotto, non fa differenza), Edgy si premurerà di propormi pagine, gruppi o post che rispecchiano il mio pensiero. In psicologia ciò prende il nome di confirmation bias (errore di conferma), ovvero il selezionare informazioni che confermino i propri pregiudizi, ignorando il più possibile elementi che li smentiscano. Questo bias, che ha ragioni emotive e pratiche (immaginate di dover frantumare continuamente ogni vostra certezza), sul web si esprime all’ennesima potenza: come suggerisce l’articolo, grazie agli algoritmi siamo letteralmente isolati rispetto alle informazioni che contrastano con il nostro punto di vista. Banalmente: dopo il rigore all’ultimo minuto di Juventus-Milan, situazione molto controversa e per certi versi opinabile, quanti hanno letto punti di vista che smentissero il proprio, derivante dal tifo? E quanti, per contrastare il perfido algoritmo e per amore di verità, sono andati a cercarsi contraddittori di propria iniziativa?

Ma c’è dell’altro. Se prima di Internet esisteva una gerarchia dei mezzi d’informazione, oggi assistiamo al livellamento, alla parificazione di tutti i media. Riprendendo l’esempio di Facebook, il più grande editore del mondo (e per molti la principale fonte di informazioni, secondo alcuni dati), ogni sito viene trattato allo stesso modo: ciò che fa la differenza sono like, commenti e condivisioni, ma in linea di principio tutti si equivalgono. Un’analisi politica del Corriere equivale ad una di NoCensura o Informare X Resistere e sta all’utente decidere quale premiare con un click. Analogamente, un articolo serio e circostanziato sulla Gazzetta può soccombere di fronte ad un calderone di luoghi comuni golosi per la pancia del tifoso inviperito da un presunto torto arbitrale.  Il valore di una notizia dipende dalle interazioni, non più dalla sua veridicità.  Stante questo metro, è facile comprendere come mai la qualità media dei contenuti sia così bassa: non ha senso impegnarsi in articoli elaborati, faticosi, se basta scrivere che i cinesi offrono mille miliardi per qualcuno, piazzare qualche foto di formose compagne di calciatori o alimentare pregiudizi (niente link, saturazione di esempi) di questa o quell’altra fazione, per ottenere lo stesso risultato in termini di views ed engagement. Un altro esempio? Questo stesso articolo. Investire così tanto tempo ed energie per cercare di proporre analisi serie e circostanziate avrà il suo valore morale, ma di sicuro è una scelta pragmaticamente svantaggiosa, considerando il rapporto costi-benefici.

Confesso: sono sufficientemente folle da pensare ne valga la pena, se anche solo una persona troverà qui uno spunto per pensare.

Comunque, ci manca un tassello. Se è vero che Facebook pone tutti sullo stesso piano, perché mai testate secolari e rinomate come la Gazzetta ed il Corriere dovrebbero essere soppiantate da paginucole nate l’altro ieri?
Finalmente, eccoci al cardine di questa riflessione: la fiducia. Ragioniamoci.
Non è possibile fare esperienza di tutte le cose. Se nell’ipotetico stato di natura questo non rappresenta affatto un problema, l’affiliazione e la conseguente formazione di strutture sociali via via sempre più basate sull’interdipendenza hanno reso la questione spinosa: cos’è vero e cos’è falso? A chi o a cosa affidarmi, per migliorare la mia condizione? A ben vedere, senza fiducia non c’è possibilità di interdipendenza e crolla il castello di privilegi e benessere che il genere umano ha costruito, differenziandosi dagli altri animali. Fin dalla nascita affidiamo le nostre vite a figure accudenti, protettive, salvifiche, da cui dipende la nostra sopravvivenza. Crescendo, l’aspetto meramente biologico viene integrato dalla moltitudine di conoscenze che ognuno di noi deve acquisire per muoversi nella complessa società in cui siamo immersi. Dobbiamo credere che sia vero quello che leggiamo nei libri di storia, o che sia un pericolo toccare un cavo elettrico scoperto: farne esperienza diretta è impossibile o mortale. Una questione di adattamento, direbbero i teorici dell’evoluzione.

Queste evidenze fungono da bussola per orientarci nello specifico ambito dell’informazione. Ovverosia: qualunque genere di informazione richiede un atto di fede per essere accettata, a meno che non se ne possa fare esperienza diretta. Tanto più si articolano le complesse conoscenze sulle quali si basa ogni aspetto del nostro vivere, tanto meno se ne può fare esperienza sulla propria pelle. Il progresso, frutto dell’impegno collettivo, svela impietoso i nostri limiti individuali. Avete forse sperimentato e compreso voi stessi come combinare le sostanze chimiche di cui sono composti i farmaci che ingerite, o come estrarre dal sottosuolo il gas che usate, o ancora come costruire e far funzionare i dispositivi dai quali state leggendo questo pezzo? Se questi tre esempi rispecchiassero le vostre capacità, vi ammirerei in quanto esseri umani straordinari. Ma anche se fosse, innumerevoli altri sottolineerebbero le vostre lacune. L’ideale del tuttologo è un’illusione.
Eppure, potete informarvi. Qualunque sia l’argomento, libri e materiale online vi possono aiutare a capire ogni cosa – a patto che diate per vero ciò che leggete. Vale anche per ciò che scrivono i giornali, ovviamente. Il problema della società attuale, quindi, è proprio qui: la prominenza del fenomeno della post-verità dipende da una crisi della fiducia nell’intero sistema occidentale. No, non sto per parlarvi di Brexit, Trump, M5S ed antipolitica, potete tranquillamente trarre le vostre conclusioni da soli. Ciò che ci interessa, qui, è che la sfiducia negli organi di informazione, nei tribunali ed in tutti gli elementi considerati costitutivi del sistema, spinge le persone a cercare fonti alternative, verità considerate più degne di credito. Ecco in cosa Internet è stato decisivo: ha concesso possibilità di ogni tipo, prima impraticabili, ai crescenti dissidenti, i quali hanno trovato anche il modo di farsi forza a vicenda, nel consolidare la propria visione del mondo.

Ma perché l’Occidente ha perso fiducia?
Rispondere esaustivamente a questa domanda è l’obiettivo di molti, ed è la sfida del nostro tempo. Un modesto articolo come questo non può avanzare grosse pretese, ma un ulteriore spunto di riflessione sì: sarebbe un errore pensare che la crisi della fiducia sia un fenomeno meramente sociale, emotivo, esclusivo delle masse. L’Occidente negli ultimi due millenni ha conosciuto due sole certezze a cui aggrapparsi: il Dio cristiano e la scienza.

Sono morti entrambi.

Un’affermazione così forte richiede una spiegazione. Scienza e religione esistono ancora, quindi non s’intende qui la loro scomparsa dalle tribolazioni dell’umanità: sono morte solo le loro pretese di rappresentare un principio esplicativo assoluto, infallibile, della realtà. L’entusiasmo positivista, che a fine ‘800 aveva annichilito la metafisica (e quindi l’egemonia di Dio), aveva dato origine ad una scienza deterministica, fatta di cause conoscibili ed effetti certi. Numerosi fattori, tra cui le scoperte della fisica quantistica ed i corollari dell’inconscio, hanno distrutto questa impostazione: oggi la scienza è probabilistica, ed in quanto tale può fornire solo risposte parziali, caute, fondamentalmente insicure. Come se non bastasse, i risultati che raggiunge sono molto meno solidi di quanto vorrebbero apparire; questo fenomeno ha preso nell’ambiente scientifico il nome di “crisis of confidence” (che coincidenza!) e qui ce n’è un esempio.
Insomma: accettare unanimemente qualunque risultato della scienza ufficiale non è più scontato. Sebbene questo non delegittimi affatto la validità della scienza, il messaggio trasmesso alle masse è che non ci si può più fidare ciecamente di niente e di nessuno. Ognuno è autorizzato a farsi un’opinione ed a considerarla l’unica giusta. Se questo vale per questioni fondamentali, dai vaccini alla forma della Terra (a proposito, convertitevi al terrapiattismo!), perché nel calcio dovrebbe andare diversamente?

Pensate a Calciopoli. Nel mondo del calcio, la vicenda ha segnato lo spartiacque vero e proprio, perché ha concesso ad entrambe le fazioni elementi da impugnare come stendardi di verità assolute. Questo, essenzialmente, dipende dalla gestione monca e sicuramente discutibile dell’intero scandalo, dallo schierarsi attivamente dei media alle fallacie del processo. La colpa è di un sistema che non è stato in grado di fornire risposte inequivocabili e sentenze inattaccabili. Tuttavia, anche ci fossero state, è ingenuo pensare che sarebbero bastate: juventini ed antijuventini esistono da tempo immemore ed oggi sono agli sgoccioli, come chiunque può constatare. La post-verità è  quindi solo un’arma per la guerra che ogni giorno si combatte sui social, allo stadio, ovunque, tra due fazioni che non dialogano e presumibilmente non saranno mai in grado di confrontarsi.

Analogamente, la VAR fa promesse che non può proprio mantenere, sia per tutti gli argomenti fin qui proposti, sia perché il calcio è uno sport dalle dinamiche complesse, spesso ingiudicabili anche a distanza di un milione di replay. Anzi: rischia addirittura di peggiorare la situazione (ricordate quanto successo al Mondiale per Club?) e non occorre essere degli oracoli per presagire polemiche persino più sanguinose ed estreme di quelle che si leggono quasi ogni giorno.

Il quadro della situazione appare sostanzialmente questo.

Se non ci fosse la poesia del calcio giocato, una vera merda.

Un Goya illuminante.

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2 risposte

  1. angyair ha detto:

    Bel pezzo, condivido molto la parte su calciopoli (grande occasione sciupata alla fine, per me invece ha segnato il distacco sostanziale dal calcio ed è dal 2006 che non metto piede in uno stadio) e anche sulla VAR che magari porterà a ridurre i casi in cui ci sarà polemica ma l’effetto rischia solo quello di aumentarla enormemente in quei casi in cui non è decisiva.

  1. 5 Giugno 2018

    […] era decisamente ambizioso. Più alla portata era invece l’obiettivo che mi ero prefisso nel mio secondo elaborato, quello a cui sono più affezionato: trattare il fenomeno della post-verità nel mondo del calcio. […]

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