GOAT – Il miglior Quarterback di sempre: prologo I

È il 1932, la National Football League esiste e sopravvive da dodici stagioni adottando il regolamento del college e arrancando tra problemi finanziari più o meno gravi. A dispetto del passato, e di ogni regola prevista per decretare un campione del football professionistico, anche in caso di parità di record vittorie-sconfitte, la stagione termina senza che nessun comma dell’articolato statuto della Lega sia in grado di stabilire chi tra Chicago Bears e Portsmouth Spartans sia effettivamente il vincitore di quella edizione. Annullando i pareggi, che all’epoca “cancellano” di fatto la partita, la percentuale delle vittorie è la stessa tra le due squadre e i confronti diretti sono in perfetta parità (due pareggi, appunto). I Packers, che a due gare dalla fine erano padroni del proprio destino, perdono proprio contro Bears e Spartans le ultime due sfide di campionato e, pur mantendendo il maggior numero di vittorie, vedono la percentuale di gare portate a casa scendere sotto la linea delle due avversarie. La Nfl decide di giocare una sorta di spareggio. Il tempo invernale, che riempie il Midwest di bufere di neve, obbliga i dirigenti del football a stelle e strisce a scegliere un campo coperto, più corto e stretto di quanto previsto dal regolamento, e modifica alcune regole del gioco. Alcune saranno solo per quella gara, altre diventeranno la legge del gioco per il futuro che, finalmente, comincerà a tagliare il cordone ombelicale che lo lega legislativamente parlando alla Ncaa. I pali della porta portati sulla linea di meta, le hashmarks, l’idea stessa della postseason e del Championship per decidere il campione, dividendo in due divisioni la lega a partire dal 1933: tutto comincia da lì. Ma, soprattutto, il gesto tecnico più apprezzato ed esaltato nel football moderno viene completamente liberalizzato proprio dopo quello spareggio.

Bears-Spartans è partita di altri tempi; non ci è dato sapere a che livello l’America si sia fermata per assistervi ma diamo per scontato che la scarsa diffusione di televisioni non abbia contribuito al compito di bloccare una intera nazione, tanto più per uno sport che, a livello professionistico, in quell’epoca stenta a decollare. Dopo tre quarti di dominio difensivo la situazione si sblocca. Carl Bumbaugh, il quarterback dei Bears, riceve lo snap e gioca alla mano verso il fullback Bronko Nagurski, uno che finirà sui ring del wrestling e nella Hall of Fame della palla ovale. Bronko indietreggia ma subisce subito la pressione della difesa avversaria. È alle corde, non può giocare il pallone alla mano e sa che il regolamento gli impone di dover indietreggiare almeno cinque yard prima di poter passare in avanti. I difensori avversari gli sono addosso mentre di fronte a lui, sul profondo, in endzone, avvista Red Grange. Nagurski lancia, Grange riceve, Chicago segna e Portsmouth protesta. Gli arbitri convalidano il gioco (ovviamente valido) e, dal giorno dopo, il lancio in avanti è legalizzato da ogni punto del campo, in ogni situazione, purché sempre dietro la linea di scrimmage, ovviamente. La NFL apre l’era dei quarterback intesi come passatori. Nel 1936 Arnie “Flash” Herber dei Packers è il primo a mettere a referto più di 1000 yard su lancio. Tra gli anni 30 e 40 Davey O’Brien e Sammy Baugh trasformano il lancio in mestiere a tempo pieno. Cecil Isbel, sempre Green Bay, supera le 2000 yard lanciate nel 1942.

Bronko Nagurski: “Non mi guardare le mani, guarda li bracci”

Poi arriva Sid Luckman da Brooklyn, New York; gioca a Chicago, nei Bears, quelli del lottatore Nagurski. Luckman trasformerà il ruolo di quarterback in uno status quo, il posto degli dei del gioco, l’affascinante mestiere del signal caller che col braccio taglia in due le difese. Fascino, tecnica, intelligenza, ma anche personaggio da copertina, che non guasta mai. Si giocherà la palma di migliore negli anni quaranta insieme all’immenso Sammy Baugh dei Washington Redskins. Il quarteback ha cambiato pelle, è nato il ruolo che rivoluzionerà definitivamente il gioco, il fulcro attorno al quale, nella quasi totalità dei casi, ruota il successo di una squadra. Capitano, leader e noto playboy (almeno nella filmografia più idiota e digerita dal pubblico), il primo dei tre back che si schierano dietro il centro vive una rivoluzione che nessun altro sport ha mai nemmeno minimamente sfiorato e che, settant’anni dopo, obbliga la lega a salvaguardare la figura del QB in ogni suo aspetto, avida di highlights e palle eroicamente spedite da una parte all’altra del campo con gesti esplosivi e artisticamente meravigliosi.

Anno 2000. Siamo sopravvissuti al Millennium Bug. È fine agosto e, come ogni anno, all’epoca, la location più invitante è il DJ set nella zona lago della festa de l’Unità, in quegli anni organizzata da quello che oggi si chiama PD e, al tempo, DS. O PDS, ma che importa. La provincia dorme tra la chiusura dei locali estivi e l’attesa della riapertura della stagione indoor, lo stanco rientro dalle ferie e la raccolta firme per salvare MTV (avete firmato? Cazzi vostri…). L’arena concerti è un bel posto, imbucato nel sottosuolo di uno spazio lontano dai dibattiti e dalle robe serie della politica. Il venerdì, dopo il concerto fogna del momento, si passa alla musica sparata dai piatti del DJ, con due bar a chiudere la zona ballo agli estremi del rettangolo che delimita la parte incasinata della festa. Le estati degli anni 90 e di inizio millennio si chiudono lì, a Ponte Alto, Modena. Andiamo di giovedì, per l’inaugurazione, non per i fuochi d’artificio e i proclami del segretario di partito, ma come ottimi atleti dobbiamo testare il campo prima della partita. Ventiquattro anni sono un’età meravigliosa per testare il campo e sai già che non starai mai in panchina. Nel viaggio d’andata il tizio che siede sui sedili dietro della macchina fuma e butta la sigaretta fuori dal finestrino. La sigaretta, presa dal vortice d’aria, rientra in auto e si appoggia su una felpa poggiata sul retro. La brucia. La felpa è la mia. Scuse e controscuse accettate, siamo tutti dispiaciuti di quanto avvenuto. Il tizio non si dà pace e mi ricompara una felpa, ma sa anche che sono amante degli “sport americani” e decide di sdebitarsi con un tocco di classe in più.

All’epoca non è improbabile frequentare il mercatino dei frati di un paese del reggiano, San Martino in Rio, un posto surreale dove puoi pescare qualunque tipo di cianfrusaglia e pezzi d’antiquariato dal valore incalcolabile. Non sai da dove arrivi la roba, chi ce la porta, chi la recupera. Fatto sta che il tizio, Rocco per gli amici, Rocco anche per i suoi genitori, lo frequenta spesso. La domenica successiva all’incendio della felpa, deciso a sdebitarsi con me, con la propria coscienza e col padreterno, mi porta due regali acquistati al mercatino dei frati. Il primo è una action figure caricaturale di Dennis Rodman (non è che potesse scegliere, quella c’era), il secondo è un libro. La copertina plastificata è devastata, copre un volume che ricorda quelli enciclopedici ma non è di molte pagine. Butto la parte plastificata ed illeggibile che lo ricopre e mi rimane in mano qualcosa di ruvido, di un colore rosso vivo, senza scritte, se non sul dorso, dove i caratteri dorati incisi riportano i dati della pubblicazione. L’autore è Roland Lazenby, uno che nel 2016 ha pubblicato la più completa e strutturata biografia di Michael Jordan. Il libro è del 1988 e non si sa come, nel 2000, i frati di San Martino in Rio siano riusciti a metterlo in vendita su una delle loro bancarelle alla modica cifra di mille lire. 100 GREATEST QUARTERBACKS è il titolo. Sono quasi commosso, paralizzato dall’emozione. Una delle prime opere pubblicate, forse la prima, sulle sempre discutibili classifiche del migliore in qualunque cosa, è nelle mie mani. Grazie a dei frati. E a Rocco. E a una sigaretta che ha fatto il giro sbagliato. Dopo dieci lustri dal lancio di Nagurski qualcuno aveva deciso che era il momento di stilare classifiche serie, corpose, dettagliate, su chi fosse il migliore di sempre nel ruolo di quarterback. E dodici anni dopo io entravo in possesso di tale gioiello. Un segno del destino.

Cimeli

Lazenby, non si sa quanto volentieri, aveva redatto la propria hit parade nel pieno di un’epoca d’oro, la stagione teatrale dei Joe Montana, Dan Marino, John Elway. Quanto è cambiato da allora… il gioco, le classifiche, i record, i nomi. Nagurski, in quella classifica, non c’è, era un fullback e, di abitudine, non lanciava il pallone. Il migliore della lista è Johnny Unitas, uno che fai fatica a togliere dal podio anche oggi, uno che è più raccontato che visto, ma è troppo Leggenda per essere discusso. Dan Marino è terzo, con la speranza di un titolo che non arriverà mai e con record inumani che verranno spazzati via nel nuovo millennio. John Elway è 55° e anche Steve DeBerg, il più grande backup di sempre, trova gloria; Otto Graham è argento, Y.A Tittle è nella top ten. C’è Manning, che di nome fa Archie, al 50° posto. A metà, al 50, proprio come il Super Bowl che compie mezzo secolo, quello vinto da un altro Manning che oggi, forse, Lazenby metterebbe molto in alto in questa classifica e che con Archie ha qualche legame di parentela. Le classifiche, già… quelle cose stupide e soggettive a cui nessuno crede, a cui non si dà mai credito, ma che solleticano la passione di ognuno di noi, stuzzicano la nostra idea e le nostre competenze, portano a confrontarci. Ognuno di noi ha un livello soggettivo ed oggettivo e vuole esprimerlo, per il gusto di confrontarsi, di dire la propria, di fare polemica o di divertirsi.

Anno 2017. La redazione di QCP ha la folle idea di stilare la classifica dei migliori QB di sempre. Coinvolge lettori, redattori, giornalisti, politici, frati, Rocco. Molti sono titubanti, premettono di odiare le classifiche, ma poi le mandano. Perché un’idea se la sono fatta, perché vogliono sapere, in fondo in fondo, cosa pensa la gente, se il loro pensiero è coerente col resto (e va bene) o è l’opposto (e va benissimo, che fai pure la figura dell’anticonformista). Siamo partiti da cento nomi, ridotti a cinquanta, a cui ne abbiamo aggiunto uno. Poi un secondo (Kyle Orton, che oggi Lazenby metterebbe quanto meno al posto di De Berg). Nella riunione dei saggi ne abbiano esclusi venti, inviando una lista di trenta giocatori e abbiamo chiesto di eliminarne quindici e di mettere in fila, in ordine di classifica, i rimanenti. Poi è arrivato il Super Bowl LI e la storia è cambiata negli occhi e nella testa di tanti. Ma non diamo tutto per scontato. La prima cosa che dobbiamo chiederci quando facciamo una classifica di questo tipo è quanto si possa oggettivizzare il talento puro di un giocatore, quanto lo si possa distaccare dall’epoca, il sistema, la bacheca. Tom Brady è davvero il più forte quarterback di sempre? Kyle Orton è stato realmente compreso dal sistema NFL? Lo abbiamo chiesto e ce lo siamo chiesti, pretendendo che la gente votasse a sentimento, per quello che riteneva opportuno. Non ci interessava disquisire sui parametri utilizzati da ognuno perché tanto, la classifica, era già memorizzata nella testa di altri. Abbiamo giocato, per avere una classifica generale da confrontare con la nostra, per avere un’idea, un suggerimento, su chi togliere, e chi no, dalle parti più basse della classifica.

Orton che scopre di non far parte della top3 dei saggi (SPOILER)

È davvero possibile fare una classifica del “migliore di ogni tempo”? Ovviamente, in senso assoluto, no. In questo stiamo con Gianni Clerici, che ha scritto la più importante opera del tennis mondiale senza mai permettersi di stilare classifiche. Ma non è nemmeno impossibile provare a fare una graduatoria che tenti di essere oggettiva valutando, in base ad ogni epoca, i fattori che hanno reso grandi certi giocatori. Non sono i record, le yard lanciate, gli MVP o i Vince Lombardi Trophy collezionati, quanto la classe pura, l’efficienza, il dominio tecnico, tattico e fisico rispetto all’epoca, l’esistenza pura al di fuori di un sistema, l’impatto sul gioco, la sua storia, la sua filosofia. E, perché no, l’impatto mediatico, culturale e sociale, dentro e fuori una determinata disciplina. Ci abbiamo provato, per gioco, e abbiamo fatto due classifiche. Quella generale, degli esperti e appassionati del gioco. E quella di QCP, che ci accompagnerà in quindici brevi monografie che tenteranno di identificare il migliore di ogni epoca. The greatest of all time. GOAT.

PS. In attesa di scoprire all’inizio della prossima settimana la classifica dei saggi ed iniziare con le monografie, un paio di foto per convincere i più scettici che quanto letto è tratto da una storia vera: Rocco esiste e questo era stato il suo regalo ancora gelosamente custodito…

Grazie Rocco

I 100 migliori 30 anni fa

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3 risposte

  1. Alberto ha detto:

    Motlo bello…..
    Non vedo l ora di leggere i prossimi articoli…

  2. Sergio Melandri ha detto:

    Grande articolo, ma adesso e’ fotta x il seguito
    Ps: avercene dei rocco!

  3. Polpaol ha detto:

    Quanto avrei voluto veder giocare Jim Zorn.

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