Su San Diego e i Chargers: goodbye, old friend

Torrey Pines…San Diego…goodbye

Le coincidenze talvolta accadono in quanto tali. Non vi è nulla di predeterminato, non vi sono percorsi che portano a un ipotetico incrociarsi di strade: nulla di nulla. Nemmeno i palazzi mentali dello Sherlock di Benedict Cumberbatch possono servire. È per motivi simili che questo racconto o, meglio, in termini cari a Jack Kerouac, stream of consciousness che vi sto scrivendo, partirà da una persona: Jacob Bannon.

Jacob Bannon non c’entra nulla con il football. Non c’entra nulla con San Diego. Non c’entra nulla con lo sport (al netto di essere un fan e praticante di arti marziali). Vi starete chiedendo chi è: non vi tengo sulle spine. Jacob è il mio musicista preferito, un artista a 360° gradi. La sua band, i Converge, mi ha accompagnato dai primi anni delle superiori e lo fa tuttora quotidianamente. Uno dei dischi che apprezzo maggiormente per il significato intrinseco si chiama: “All We Love We Leave Behind”.

All We Love We Leave Behind, già. Un lavoro sofferto dedicato alle persone e alle cose materiali ed immateriali che svaniscono e scompaiono per sempre. Tranquilli, per alleggerire la narrazione ve lo paragono al personaggio di Bing Bong nel film Pixar “Inside Out”.

All We Love We Leave Behind: lo ripeto per la terza volta in poche righe e va a braccetto con la parola “nulla” anch’essa rintracciabile in questo incipit. Questa è la sintesi delle sensazioni che da ventiquattro ore mi girano, sportivamente parlando, per la testa.

Vi voglio bloccare subito. Non raccontatemi del “si tifa i giocatori”, “la squadra è sempre quella”, “vabbé, ma non sei di San Diego”. Non cercate di razionalizzare quello che, per il sottoscritto, non è razionalizzabile: la passione per un team. Badate bene, questo non significa che la vostra visione sia errata, semplicemente non è la mia. Possono coesistere entrambe in questo mondo, ma personalmente sono sempre stato fortemente emozionale. Quindi, vi rivelo anche un piccolo segreto: non leggerete i dossier sepolti sotto le fondamenta del Qualcomm che vi parlano di come Dean Spanos abbia deciso di trasferirsi in un mercato come Los Angeles altamente cannibalizzato, con una brand identity, quella dei Chargers, tendente all’evaporazione istantanea nella Città degli Angeli.

Qui ci sono solo delle parole scritte caoticamente da un ragazzo che, con la passione degli sport americani, decide con il suo subconscio di iniziare a giocare una, due, tre, quattro, cinque, tutte le partite di Madden 2002 con San Diego, perché? Perché gli piace il logo con il fulmine, i colori e… come suona quella città californiana: S-a-n D-i-e-g-o con quella pronuncia spezzata tra la “i” e la “e”. Pare un ragionamento tendente all’idiota? Beh, non posso che stringervi la mano, d’altronde erano i pensieri di un ragazzino undicenne che, però, mosso da curiosità e un 56k del Paleolitico inizia a ricercare notizie su questa città: San Diego. Il passo per innamorarsi della California è breve e quel ragazzino si fa la promessa di riuscire a visitarla (spoiler alert: sogno realizzato).

Nel frattempo passano gli anni e l’amore per questi San Diego Chargers non accenna a diminuire. Dal televideo il lunedì mattina, ai tabellini su NFL.com, alle prime partite viste live su SKY Sport fino ad arrivare, in epoca più recente, al Gamepass.

Avete in mente l’episodio di Black Mirror in cui è possibile rivivere il proprio passato attraverso chip e nervo ottico? Bene, bravi, altrimenti recuperatelo. Sto scrivendo questo pezzo dal divano di casa mia e potrei entrare nella modalità ricordi in un loop infinito. Rivivere l’esaltazione di scoprire il numero 21, LaDainian Tomlinson ed ammirarlo ad ogni sua giocata. Ogni snap preso da Brees, prima, e Rivers, dopo, lì, pronto a danzare ed infrangere i record della storia del gioco nel 2006. Immagini elettrizzanti che rimangono scolpite nell’identità sportiva di San Diego e… mia. Gli aneddoti si perdono in un labirinto confusionario: dal passato riemerge Junior Seau che, per motivi anagrafici, ho vissuto a posteriori, dagli anni recenti emergono centinaia e centinaia di giocatori; chi dal nulla come Antonio Gates, ma comunque tutti passati per San Diego: da Keenan McCardell a Keenan Allen, da Shawne Merriman a Joey Bosa, da Darren Sproles a Danny Woodhead, da Ryan Mathews a Melvin Gordon e così via. Su tutti, però, insieme a LT, c’è quel Philip Rivers che, da quando uscì infortunato facendo trash talk con i tifosi Colts ai Playoff 2008 con la nomea di “bad guy” di strada ne ha fatta, diventando quel fierce competitor pronto a mettere cuore e sangue sul campo.

Un leader emotivo che, con grande classe, oggi 13 gennaio 2017 dichiara così:

“I’m going to give (Los Angeles) everything I have left,” Rivers said. “But when the dust settles I’m going to look back and think about my time as a San Diego Charger. We should feel sadness as a community. I am sad.”

Ecco. Ritorna il tema di “All We Love We Leave Behind” e non posso che abbracciare il pensiero di Philip. Come tanti anni di battaglie sul campo, lo seguo e lo supporto anche in queste parole.

E non c’è nulla di personale con Los Angeles, megalopoli imperfetta per definizione. Ci ho vissuto quasi un anno, ci sono stato in due archi temporali differenti e ci sono legato, anche qui, come dicevo in apertura, emozionalmente. Insomma, non sono il San Diegan 100% from La Jolla che non si vorrà mai legare al mood di LA, così distante, seppur così vicina, risalendo la I-5 della Southern California. LA, per altri motivi, è una città che amo, semplicemente non la riconosco in quell’undicenne che scelse San Diego su Madden. That’s it. Surreale? Banale? Infantile? Sì. Sì. Sì. Ma è così.

Chiudendo con Philip: io non so quando nelle mie vesti da tifoso “the dust settles”, ma, una cosa la so: sarò per sempre un fan dei San Diego Chargers.

Ah, alla fine non vi ho raccontato quale fosse la coincidenza. Jacob Bannon il giorno in cui i Chargers hanno deciso di diventare Los Angeles Chargers ha rilasciato il primo singolo del suo progetto solista. Il titolo? “Goodbye, Old Friend.” Perfetto, migliori parole per descrivere il mio stato d’animo nel non vedere più la città San Diego accostata ai fulmini non si potrebbero trovare.

Goodbye, Old Friend.

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