Gioie e Dolori

No, non siamo tornati e per di più ci hanno tolto pure lo sport, tutto.

In un mondo parallelo, dove noi non avremmo smesso di scrivere le nostre sciocchezze e dove non ci sarebbe stato questo virus a spazzare via le nostre abitudini (e purtroppo non solo), in questi giorni staremmo scrivendo a ruota libera su draft NFL, classiche del nord, avvicinamento olimpico, eccetera, eccetera, eccetera.

Invece no, per superare questo isolamento, pur restando in casa, per renderlo meno duro di quello che già è e per distrarci dalle notizie più o meno nefaste che ci corrono incontro, noi come tutti voi, appassionati di sport, siamo costretti a ricordare: ricordare le partite più belle, le emozioni più forti, i successi, le gioie ed i dolori che il mondo dello sport da sempre ci ha donato. Spesso le abbiamo date per scontate, ora è chiaro che non avremmo dovuto e mai più lo faremo.

Qualche mese fa, verso fine novembre, proprio mentre compravo i biglietti per le gare dell’ultimo weekend del mondiale di biathlon di Anterselva, mi son trovato a fare mentalmente una sorta di recap di quelle che sono state le mie emozioni sportive più forti vissute dal vivo.

Me le sono appuntate in uno di quei tanti file txt che uno fa anche senza un motivo e qualche giorno fa, nell’opera di pulizia e riordinamento del PC, sono tornate fuori, come un lapsus freudiano, un evento solo apparentemente causale. Allora ho dato una spolverata a questo sito ed ho deciso di metterle nero su bianco, forse più per me che per voi, ma sarò ben lieto di leggere le vostre esperienze eventualmente se vorrete condividerle qui nei commenti o nei vari canali social.

Avevo pensato di fare una graduatoria per intensità d’emozione, ma alla fine mi era impossibile, ed allora andiamo per ordine cronologico a partire da domenica 29 marzo 1998:

RETROCESSIONE SCAVOLINI

Ovviamente lo sport non regala sempre e solo gioie, anzi…

La stagione 97/98 è stata la prima in cui ho avuto un abbonamento, settore P3, insomma il secondo anello, alla sinistra del settore occupato dalla tifoseria “organizzata” di quello che all’epoca era il BPA Palas, che oggi è la Vitrifrigo Arena e che è sempre stata l’astronave di Pesaro.

Nella stagione 97/98 il palazzetto era al secondo anno di vita e fu probabilmente la stagione più brutta della storia della squadra (almeno fino a quella di quest’anno…).

Certi nomi non me li dimenticherò mai: Truvillon, Bonato, il cubano Guibert (praticamente sempre rotto), Fontaine, Todd Day arrivato dall’NBA a stagione in corso per salvare la baracca che distrusse a suon di mattonate e poi quel ….. di Esposito. Una marea di infortuni, compreso quello di Melvin Booker, che quanto meno da lì a pochi anni sarebbe ritornato per portarci grandi soddisfazioni. Di quell’anno salvo lui, per quanto fatto dopo, ma anche per il poco che fece vedere di buono già quell’anno, salvo Moltedo a cui comunque rimasi affezionato e il tiro dalla media di Paolino Conti.

Indelebile nella mia mente è rimasta la diapositiva della retrocessione, arrivata all’overtime di una partita giocata in un altro palazzetto all’ultima giornata del campionato in quel 29 marzo 1998.

Pesaro aveva vinto contro una distratta Mash Verona di Mike Iuzzolino (che di lì a pochi giorni avrebbe vinto la Coppa Korac) e tutto il palazzo gremito aspettava i risultati dagli altri campi, serviva la sconfitta di Reggio Emilia contro l’odiata (e da allora ancor di più) Fortitudo Bologna. Le due squadre andarono addirittura ai supplementari, il che ci permise di ascoltare dalla radio trasmessa attraverso le casse del palazzetto l’evolversi del nostro destino infausto (nel 1998 ça va sans dire non c’erano streaming, smartphone e quant’altro).

Il mio cuore si spezzò all’unisono con quello di tutti gli altri tifosi rimasti sugli spalti a pregare, come in un tempio pagano. Le lacrime in macchina per tutto il viaggio di ritorno sono gelosamente custodite in fondo al mio cuore.

MUGELLO ’99

La mia prima esperienza al Mugello è datata 6 giugno 1999: treno all’alba, anzi treni (e ben prima dell’alba) ed autobus navetta annessi. Una volta qui era tutta campagna tutto prato, calza a pennello come sottotitolo di questa esperienza. 80mila Lire per entrare e 40mila di supplemento se si voleva andare sull’unica tribuna del tracciato (peraltro ben esposta al sole in quella giornata). Le tribune ad ogni curva e le tasse da pagare ai fan club gialli sono arrivate negli anni successivi.

Delle gare non ricordo tantissimo, ma ricordo il rumore delle tre categorie: le 125 sembravano zanzare, mosche che si avvicinavano alla San Donato quasi con timidezza e salivano verso Poggio Secco come danzando. Le 250 ricordo di averle seguite in tribuna e ricordo di un Rossi vincente (e ancora non odiato, da me intendo…), ma poco altro.

Per le 500 tornai alla prima curva e lì resta indelebile la sensazione della partenza: a livello di rumore è come se parlassimo di due sport completamente diversi, quel rombo che continuava a salire e quelle moto che continuavano a non comparire (la San Donato è preceduta da una leggera piega sulla sinistra che preclude la visione delle moto fino a qualche centinaio di metri dalla prima staccata). E con il rumore aumentava l’eccitazione per vederle irrompere sulla scena. Come un aereo che sta per decollare ma che continua a non alzarsi da terra.

Del duello tra Biaggi (di cui sono sempre stato fan) e Criville resta forse più cercando su internet che nella mia memoria, quello che è indelebile invece è l’aver seguito gli ultimi 2 passaggi (incluso quello di rientro) praticamente a bordo pista (beata incoscienza):

E poi resta la rincorsa verso i box a gara conclusa. Ricordo che Biaggi (arrivò secondo per pochi decimi) corse quella gara ammalato (credo un problema intestinale o qualcosa del genere) e ricordo che la sua moto, con la pista invasa dai tifosi, fu praticamente abbandonata lungo il muretto davanti ai box. Ricordo di gente che cercava di recuperare qualsiasi cosa (gomme, pezzi di telaio, laqualunque):

Poi ricordo il dopo gara, su tutti Locatelli (vincitore della gara 125) che in giro in scooter per il retro paddock dispensava passaggi ai tifosi che glielo chiedevano.

Sono tornato al Mugello altre 2 volte, l’ultima nel 2001, quella con Rossi in tuta hawaiana, una pioggia torrenziale, lui che cade e la gente che da sfoggio della propria ignoranza sportiva (e non solo), da quella volta mi son promesso di non metterci più piede, cavolo…son già passati 20 anni praticamente.

DEMARCO JOHNSON AT THE BUZZER!

Alla Scavolini ho dedicato molto del mio tempo di sport visto dal vivo specie negli anni a cavallo tra vecchio e nuovo millennio. Le sfide con le bolognesi avevano sempre quel sapore particolare: la mia prima partita dal vivo sarebbe dovuta essere Scavolini-Kinder Bologna, 26 gennaio 1997, ma arrivammo a biglietti “popolari” esauriti (fu una gran partita, benché persa) e rimandammo a qualche settimana dopo (Scavolini-Telemarket Roma, 2 marzo…persa di tre punti).

Dicevo, giocare contro le bolognesi portava sempre un qualcosa di più a livello emotivo anche per il tifoso. E la stagione 2000/2001 fu una delle più esaltanti tra quelle che ho vissuto attivamente e fu giocata sempre sul filo di lana proprio contro la Virtus e la Fortitudo. Indimenticabile resta la vittoria contro la F nella gara di ritorno di regular season, 4 marzo 2001.

L’ultimo minuto fu una cosa incredibile, non mi sono rimasti tutti i dettagli, ma ricordo di aver pensato di averla vinta e persa 4 5 volte. Il gancetto sulla sirena di DeMarco Johnson (giocatore che per movenze e tecnica adoravo totalmente) che va a spegnersi, forse rimbalzando anche sul tabellone e/o sul ferro, in fondo alla retina è una delle gioie più grandi da tifoso pesarese che ho mai vissuto.

Ero abbonato al settore K2, quello della tifoseria “organizzata” (sì, mi sono continuato ad abbonare nonostante l’inizio infausto con la retrocessione, ma cambiai posto). Da quel settore al parquet penso di aver fatto, assieme agli altri, il record del mondo per reazione a canestro decisivo di una partita di basket. L’invasione di campo ad abbracciare i giocatori rimarrà per sempre, benché fosse “solo” una partita di regular season.

Tra l’altro quell’anno vincemmo in modo analogo anche la semifinale di Coppa Italia, sempre contro la Paf Bologna. Che poi però ci massacrò nella semifinale scudetto, mentre la finale di Coppa Italia (andai a Forlì a vederla) fu un blowout, una sonora sconfitta contro l’altra bolognese, la Virtus.

JUVE-REAL 3-1

Probabilmente la mia partita (live) perfetta. Ho molte esperienze da tifoso juventino allo stadio (3 anni di abbonamento con il nuovo stadio, qualche trasferta europea, varie ed eventuale a partire da un Milan-Juve del 1993, finito 1-3, trasmesso anche in RAI), altre partite finiranno in questo percorso dei ricordi, ma a livello calcistico puro questa è probabilmente l’emozione che raggiunge vette più alte. 

14 maggio 2003, semifinale di ritorno di Champions League, dopo aver perso 2-1 all’andata. Non avendo mai visto una finale di Champions allo stadio, questo è il punto più alto a cui ho potuto assistere e ne sono uscito con un mix di godimento e beatificazione che assomiglia al Nirvana.

A ripensarci ora mi rendo conto quanto fosse stato pericoloso quel rigore, poi parato da Buffon a Figo, calciato proprio sotto la curva in cui mi trovavo, eravamo sul 2-0, avrebbe sostanzialmente azzerato tutto quello che di buono si era visto fino a quel momento. Ma sono due le immagini scolpite nella mia memoria che mi porto via da questa esperienza:

  1. Il gol di Del Piero a fine primo tempo: rinvio a casaccio della difesa su un passaggio molle dell’ex Zidane, stop ed ingresso in area, vissuto quasi al rallentatore dalla curva, doppia finta per aprirsi un varco e tiro questa volta sul primo palo con Casillas beffato. Ho alzato gli occhi verso le tribune del Delle Alpi e l’immagine dello stadio letteralmente esploso è una di quelle cose che mi sono come rimaste impresse nella retina. Per parecchi giorni successivi ricordo che chiudevo gli occhi e continuavo a vederla, continuava a sentire quel boato.
  2. Come non può essere dimenticato il gelo che era calato sullo stadio quando, nei minuti di recupero, era arrivata l’ammonizione e successiva squalifica per la finale di Nedved in un fallo che a rivederlo anche ora più stupido ed inutile non poteva essere. Gioie e dolori…non se ne scampa.

SAMBA DO BRASIL

Calcio sì, ma non solo Juventus. Mi manca la nazionale ad alti livelli, di quelli che possono entrare in questo articolo (vista solo una dimenticabile Italia-Romania 1-0, gol di Di Vaio, ad Ancona), ma porto con me un Milan-Barcellona 0-1, gol di Giuly.

Il 18 aprile 2006 pensavo fosse l’unica occasione per vedere dal vivo Ronaldinho e non me la feci scappare. Lui non giocò nemmeno questa gran partita, ma la sensazione che potesse sempre succedere qualcosa quando aveva il pallone valse comunque il viaggio ed il prezzo del biglietto. Lui era come Zidane, andavi allo stadio anche solo per vederli riscaldare, per vederli stoppare il pallone, accarezzarlo, ammaestrarlo e renderlo vivo. Non è sempre e solo questione di tifo, ma di bellezza sportiva.

Questo era il biglietto della partita, fidatevi!

LA STANDING OVATION DEL BERNABEU

La Juventus post calciopoli per qualche anno non ha regalato molte emozioni, ma una sono davvero fortunato ad averla vissuta dal vivo (e non sto parlando della doppietta di Amauri all’AmsterdamArena, quella c’ero, ma ve la risparmio).

A rileggere ora la formazione di quel 5 novembre 2008 ritorna ancora il dubbio del perché sarei dovuto andare a Madrid per di più per una “stupida” partita dei gironi: Manninger; Mellberg, Legrottaglie, Chiellini, Molinaro; Marchionni, Tiago, Sissoko, Nedved; Amauri (38’st Iaquinta), Del Piero (42’st De Ceglie). Allenatore Ranieri.

In tutto questo l’informazione principale è quel 42’st De Ceglie, ovvero il momento in cui il Bernabeu si è inchinato ai piedi di un giocatore a cui ho legato gran parte della mia crescita come tifoso e che più di ogni altro mi ha emozionato riguardo al calcio. Pelle d’oca da mettere nello zaino e da riportare a casa, assieme ad una barriera messa alla caz*o di cane (cit.), visibile anche dalla piccionaia dove eravamo relegati.

LA CHIUSURA DI UN CAPITOLO LIBRO

Il primo anno dello Juventus Stadium (stagione 2011/12), assieme ad altri amici, ci siamo abbonati: la Juve veniva da anni deludenti e non si vedeva la luce in fondo al tunnel.

L’abbonamento non lo facemmo per chissà quali ambizioni sportive, lo facemmo perché senza di esso probabilmente sarebbe stato impensabile trovare un biglietto per l’ultima partita della Bandiera. Non era ufficiale o forse sì, ma ormai sembrava ovvio e non si poteva mancare nel momento dei saluti di colui che più di ogni altro, più di Boniperti, aveva incarnato e rappresentato la Juve.

La stagione poi è stata qualcosa di incredibile, nessuna sconfitta, la vittoria dello Scudetto che nessuno poteva immaginare o sperare specie ad inizio anno. Del Piero l’ha vissuta tra panchina (tanta) e campo, pur non facendosi mancare qualche graffio decisivo ai fini della vittoria finale (su tutte la punizione alla Lazio, proprio davanti i nostri posti), il gol all’Inter ed iconico il gol nella sua ultima partita, contro l’Atalanta, a Scudetto ormai matematicamente vinto, il 13 maggio 2012.

In realtà quella non fu la sua ultima partita con la maglia della Juve. Fu l’ultima in casa, l’ultima in campionato, l’ultima nel mio cuore anche se poi, 7 giorni dopo, si giocò la finale di Coppa Italia all’Olimpico di Roma persa contro il Napoli. Ma chiaramente per lui e per noi, le immagini del suo addio restano quelle che vanno dal 12esimo del secondo tempo di Juventus-Atalanta fino al fischio finale, di una partita che forse è continuata sul campo ma alla quale nessuno ha più dato importanza, tutti intenti a seguire il pellegrinaggio di un giocatore volto a raccogliere sciarpe, affetto, abbracci e cori da parte della sua gente.

Ho pianto come uno scemo per non so quanti minuti e l’immagine di lui che si alza in piedi sulla panchina dello Stadium a braccia aperte sono la trasposizione moderna di un imperatore dentro al Colosseo acclamato dal suo popolo.

Brividi veri, ancora oggi, a rivederlo, a riascoltarlo.

Si ringrazia Luca, compagno di decine e decine di trasferte, per aver immortalato il momento storico, chiaramente dalla ripresa tremolante potete immaginare non sia diventato un regista negli anni successivi.

PIAZZA SAN CARLO

Quello del 3 giugno 2017 tecnicamente non è un evento sportivo visto dal vivo, ma un “assembramento” dovuto allo sport, questo sì: ero infatti a Piazza San Carlo, Torino, la sera della finale di Champions League giocata a Cardiff.

Il delirio collettivo al pareggio di Mandzukic è adrenalina allo stato puro e penso di non aver mai esultato così tanto per un gol. Che poi di quel gol vidi pochissimo in diretta, il maxi schermo era posizionato troppo in basso e da metà piazza si faceva fatica a seguire bene la partita.

Certo il maxischermo poco visibile non è nemmeno tra la top5 degli orrori organizzativi che hanno contraddistinto quella serata, poi finita tragicamente e passata alla storia non tanto per il risultato sportivo (sai che novità…), ma per i morti (tre) ed i più di 1500 feriti tra i quali dovrei essere conteggiato anche io.

Una serata infatti finita all’ospedale. Ovviamente non posso dimenticare la fiumana di gente che mi travolse, il panico, le urla di chi dava per certi spari di pistole, ragazzi che non capivano da cosa stessimo scappando, le transenne per terra a mo’ di trappola sulle quali sono inciampato ed i vetri dove ho appoggiato la mia mano facendo il danno.

Non dimenticherò le due ambulanze in loco che cercavano di prestare soccorso ai feriti più gravi e soprattutto i ragazzi di un bar vicino alla piazza che mi presero e mi portarono all’ospedale (credo al CTO) mentre stavo imbrattando di sangue un po’ ovunque.

Lì qualche punto di sutura e l’obbligo poi di farmi rivisitare una volta tornata a casa, ad Ancona. Visita che poi si trasformò in ricovero per un’operazione ai nervi della mano, fortunatamente niente di grave se non la perdita di un po’ di sensibilità sul dito medio e una cicatrice che fa del mio palmo della mano un estratto del circuito di Assen.

IL COLLE DELLE FINESTRE

In questa mia carrellata emotiva non poteva mancare il ciclismo. Sport che pur avendolo amato e seguito per tutta la mia vita, ho iniziato ad apprezzare dal vivo solo da una manciata d’anni (ed ora non riesco più a farne a meno…ed anche per questo sia ancora più maledetto il covid-19!).

Quando nel 2018 ho deciso di seguire la carovana rosa per tutta la fase finale della corsa (qui un resoconto dettagliato del “giro del Giro“), mai avrei immaginato di trovarmi, il 25 maggio 2018, nel bel mezzo di uno di quegli eventi che segnano la storia di uno sport.

L’impresa coppiana di Froome nella tappa che arrivava a Bardonecchia, ma che per tutti era la tappa del Colle delle Finestre, mi fa venire i brividi ancora oggi. Il suo sbucare in lontananza, un pallino bianco in mezzo a una flotta di moto è qualcosa che rimarrà sempre nel mio cassetto dei ricordi sportivi e che non mi stancherò mai di raccontare o raccontarmi. E’ la Cuneo-Pinerolo dalla mia generazione (che peraltro ha avuto la fortuna di vivere anche il Galibier di Marco Pantani).

I ciclisti li vedi arrivare, li guardi in faccia e poi spariscono, mentre tu sei intento a ripetere le stesse operazioni per quelli che devono ancora arrivare. E’ più un guardare lo sportivo, invece che lo sport…è un approccio diverso e per certi aspetti più diretto. Forse per questo motivo, in questi giorni di isolamento, il ciclismo vissuto in strada è quello che mi manca di più a livello sportivo.

ANTERSELVA 2020

Eravamo alle porte dell’epidemia poi diventata pandemia, storia di un mese fa. Con il primo caso di covid-19 in Italia scoppiato proprio mentre stavo facendo la valigia per andare a vedermi la mia prima gara dal vivo di biathlon (amore recente). L’ultima (mia) occasione per vivere scene del genere:

E per emozionarmi, ancora una volta, per lo sport e con lo sport. La mass start femminile di domenica 23 febbraio 2020 è stata paradiso, purgatorio ed inferno tutto assieme. Il calvario della Vittozzi, comunque sorridente, ultima all’arrivo e soprattutto la gara di Dorothea Wierer, alla caccia del terzo oro mondiale nella sua Anterselva.

Ho pianto, di gioia, trasportato dalla situazione, quando dopo l’ultimo poligono e l’ultimo giro di penalità è uscita prima, da sola, con 14.4 secondi di vantaggio sulla seconda ed è passata davanti alle tribune lanciata in quello che sembrava fosse un’oro già deciso.

Mi sono asciugato le lacrime quando al primo rilevamento i secondi di vantaggi dalla Roiseland si erano dimezzati.

Mi sono disperato appoggiato sulle ginocchia quando a metà giro era stata raggiunta e superata.

Ho gridato di grinta quando sull’ultima salita ha messo sui bastoncini e sugli sci le ultime gocce di energia per cercare in qualche modo di restare attaccata alla norvegese.

Ho gestito il mio sconforto quando proprio la norvegese è entrata ben da sola nello stadio del biathlon per le ultime centinaia di metri.

Ho applaudito la prima, la seconda, la terza, la quarta….perché alla fine è sport, gioie e dolori che si mescolano senza soluzione di continuità e ci mancano dannatamente.

azazelli

Da giovane registravo su VHS tutte le finali di atletica, mondiali ed olimpiadi, poi m'hanno cancellato il record di Donovan Bailey con Beautiful e mi sono dato al download. Vivo di sport, cerco di scriverne.

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Una risposta

  1. Alberto ha detto:

    mi mancate…
    ho letto con piacere questo articolo
    e’ stata una piacevole sorpresa

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