This is the end, my only friend, the end.

Norv Turner, quanti pensieri…ce ne fosse stato uno giusto

C’era una volta, nel 1971, un impavido ragazzino appena diplomatosi all’Alhambra High School di Martinez, California [dove giocava come Quarterback e Safety] che deciderà di tentare la propria carriera universitaria come QB a Eugene, presso University of Oregon. Le speranze di questo giovane si infrangono su una solida back-up position, ricoperta per tre anni, dal 1971-1974. Di chi stiamo parlando ? Di Norval Eugene Turner, al secolo noto molto più semplicemente con il diminutivo “Norv” Turner. Volete sapere anche un’altra curiosità ? Il QB titolare dei Ducks in quegli anni è un certo Dan Fouts, che diventerà pilastro e futuro Hall of Famer dei San Diego Chargers. Quando si dice “le coincidenze”.

Ma la cornice fiabesca s’interrompe qui. Non sarà un racconto con lieto fine e men che meno con eroi da celebrare e imprese da ricordare. Siamo più vicini a una tragedia greca degna del miglior Euripide, ma anche qui non c’è nessun deus ex machina che cala dall’alto dei cieli e risolve la situazione. Siamo più vicini all’epoca del terrore inaugurata da Robespierre dove la piazza chiede la testa del colpevole e la ghigliottina risponde presente all’appello. Questo è lo scenario giusto per raccontare la parabola [discendente] di Norv Turner in quel di San Diego.

Nel febbraio del 2007 viene presa la decisione di assumerlo come capo allenatore di una franchigia reduce da una drammatica uscita al Divisional contro i New England Patriots, dopo una stagione costellata di straordinari traguardi. In Regular Season la squadra chiude con l’incredibile record di 14-2, è l’anno di un LaDainian Tomlinson al massimo del suo splendore, con i suoi 31 touchdown complessivi e a San Diego si respira aria di Super Bowl. Ma l’eliminazione contro Tom Brady e soci, avvenuta in modo rocambolesco per giunta, costa caro a Marty Schottenheimer, affettuosamente soprannominato MartyBall per la sua attitudine al ground game. C’è chi parla nella decisione di separarsi, visti i trascorsi burrascosi, di guerra di potere vinta dal Sergente di Ferro, AJ Smith; General Manager che nella nostra storia legherà il suo destino, come un’alleanza nei comics, a Norv Turner. Una personalità forte quella di AJ, dominata dall’ego e dalla convinzione che la sua sia l’unica possibile “right way” per condurre un team al successo. Insomma, meglio non creare attriti, chiedere informazioni ai vari Cromartie, V.Jackson o lo stesso Tomlinson.

AJ Smith, quante certezze…tutte sbagliate

Norv incarna l’emblema dell’HC malleabile, sempre al suo posto, mai sopra le righe, mai polemico e in conflitto, la scelta è perfetta e sembra calzare a pennello per un GM come AJ Smith. Il tutto avviene con il benestare di Dean Spanos, un Presidente “soft”, che non ama investire troppo e dalla personalità leggera, che oltre al “Super Bowl bound” ha ben poco da criticare e demanda piena fiducia cieca al General Manager. Intendiamoci, non si sta parlando di una franchigia in ostaggio come nel miglior “Inside Man” di Spike Lee delle ideologie e dei pensieri di AJ Smith, ma il quadretto nella quale emerge come figura dominante il 60enne dal Rhode Island con la passione delle camicie hawaiane è evidente.

Ed è per questo che non voglio fare una noiosa cronistoria di stagione in stagione del lavoro dell’accoppiata Norv&AJ. In linea generale il tragitto compiuto dall’ex brillante OC dei Dallas Cowboys campioni del mondo nel ’92 e nel ’93 [grazie proprio al lavoro svolto da Norv su Aikman, tra le altre cose] è paragonabile a quello di un’imbarcazione che da acque tranquille si trova al cospetto di un Maelstrom e da lì discende nelle più profonde tenebre, senza più rivedere la luce del giorno. Una parabola discendente, in parole povere e se non vogliamo scomodare riferimenti a E.A. Poe.

Da HC Norval non aveva mai convinto, veniva da un licenziamento dagli acerrimi rivali Raiders e durante le sette stagioni ai Redskins portò ai PO la franchigia di Washington una sola volta. Un ruolino tutt’altro che invidiabile, ma le doti da Offensive Coordinator [come sopra citate] sembrano l’amuleto magico e il numero di prestigio che salva Turner. E a San Diego le prime tre stagioni sembrano andare bene. Il primo anno la squadra raggiunge addirittura il Championship, ancora una volta, contro i Patriots della quasi Perfect Season, ma a Foxboro arriva la sconfitta a causa degli infortuni che falcidiano i Chargers : Tomlinson, Gates e un ginocchio sfasciato di Rivers [comunque in campo]. Le premesse per avviare un ciclo vincente sembrano buone, ma, molti maligni azzarderebbero dire che il caro Norv visse d’eredità del team condotto da MartyBall & Wade Phillips [DC]. E a sei anni di distanza si può affermare che avevano ragione.

Arrivano nelle due stagioni successive, due altrettante partecipazioni ai playoff. Entrambe finiscono male, due partecipazioni ai Divisional, due L. Un anno da underdog contro gli Steelers [con la squadra ai PO con record di .500 e una difesa obrobriosa] e un anno da protagonisti, record di 13-3 in Regular Season, contro i Jets di Rex Ryan. In questi anni si assiste al ripresentarsi cronico di problemi quali gestione discutibile del personale, il dilaniarsi del rapporto con la Leggenda della franchigia, LaDainian Tomlinson, “partenze lente” [virgolettate perché per chi scrive è sempre stata un’invenzione della stampa, piuttosto si parla di squadra che fatica ad entrare in ritmo], dei gameplan che collassano inevitabilmente verso la banalità e l’incapacità tecnica. Una squadra che non performa come dovrebbe, con lacune che andrebbero colmate. Ma in questo grande teatro non agisce il solo Norv, ci mancherebbe. Ci pensa AJ Smith a voler giocare una partita a scacchi cruciale con più elementi fondamentali nell’organization. Prima tocca a Tomlinson, dopo a Vincent Jackson, talentuoso WR come non se ne vedeva da anni a San Diego, o ancora a Marcus McNeill, OT dominante, con la sfortuna di avere una schiena fragilissima, alla Tracy McGrady, giusto per capire. E la squadra viene perennemente rinforzata da scelte azzardate al draft, vedi Larry English, Craig “Buster” [di nome e di fatto] Davis, Jonas Mouton, Jacob Hester e così via, sperando di non dover aggiungere Mathews o Ingram. AJ Smith fallisce più volte come abbiamo appena visto al draft negli ultimi anni, vive di rendita dal draft 2004, intervengono di nuovo quei maligni di cui sopra se ne citava l’esistenza. Ma la politica high risk – high reward fa parte del suo DNA, non può farne a meno. Sammy Davis over Troy Polamalu, who ? E tutto ciò si riflette nella Free Agency dove si scontra anche con la politica aziendale di non voler spendere troppo e non elargire contratti pesanti a più giocatori, dopo aver individuato l’uomo franchigia in Philip Rivers. Per aggiungere dettagli alla nostra sceneggiatura possiamo anche dire di come il personale per Norval si faccia sempre più di dubbia qualità e il coaching staff perde preziosi elementi [Rivera, Chudzinski] o acquisisce elementi scellerati [Manusky]. Il declino è servito.

Rivers, con uno sguardo al nuovo che arriva.

32-16. 24-24. Il calo non è solo numerico. Il calo dal 2010 al 2012 è drammatico su tutti i fronti. Sia sul piano psicologico che su quello pratico. La mediocrità raggiunge Coronado Bridge. E Norv non ha più alcuna credibilità, è deriso e schernito. Un esempio ? Recupero da Urban Dictionary, la bibbia dello slang americano. Alla voce del neologismo “to be norv” si ha “They’ve been Norved –> e.g. cursed by several years of bad luck [Murphy’s Law], or just plain pathetic.” Direi che è sufficiente. Non la pensa così Philip Rivers, QB che come Aikman decenni prima, A.Smith in tempi più recenti ai 49ers, ha giovato nei primi anni di tenuta Turner come HC dei Bolts di un’evoluzione clamorosa. Fra il 2007-2010 raggiunge l’elite del ruolo e, se abbiamo dipinto Norv con queste tinte tormentate degne del Van Gogh più irrequieto, è bene anche dare dei meriti. Ecco perché la crescita di Philip Rivers deve essere vista come uno dei più grandi traguardi della gestione Turner, anche se questa è avvenuta a discapito di Tomlinson, sempre bene ricordarlo. Il QB da NC State è legato emotivamente al suo HC e nel 2011, dopo la seconda stagione consecutiva senza PO, raggiunge Dean Spanos negli uffici della Presidenza e dichiara “he’s the guy, he’s my fault”. Fault sì perché il gioco esibito dal sanguigno quarterback è imbarazzante per lunghi tratti della regular season.

Il 2012 si presenta così come l’ultimo appello per Norv, ma la squadra chiude 7-9, .467, primo record negativo dal lontano 2003 e la qualità di gioco espresso è ancora peggiore dell’anno precedente. Il personale è migliorato in difesa, grazie a un draft finalmente oculato di uno Smith anch’egli sull’hot seat, ma non basta. Philip collassa nella prestazioni, regredisce in meccanica e decision making, sembra tornato il ragazzino impaurito game-manager dell’era MartyBall. L’attacco precipita e con lui crollano verticalmente Norv & AJ.

Il Qualcomm Stadium deserto con i pochi presenti che fischiano pesantemente la squadra e la sconfitta imbarazzante per 7-31 contro i Panthers sanciscono la fine, come rivelerà settimane dopo in conferenza stampa Dean Spanos. Norv e AJ sono entrambi “dead men walking” e il Black Monday si abbatte su di loro senza pietà. La decisione è presa, l’Era di Norv&AJ è finita.

Smith era ironicamente soprannominato “Lord of No Rings” e così è stato. Solo tanti “what if” per i Chargers durante il suo regno, ma zero Super Bowl, zero anelli, zero partecipazioni.

Norv, si è guadagnato l’appellativo “Houdini” grazie a una sua citazione nelle ultime interviste nella sua carriera da HC sulla sideline Bolts. Beh, lasciatemelo dire, più che Houdini, Norv, ora sembra più il personaggio di Robert Angier di “The Prestige”, il quale rimane intrappolato nella tecla d’acqua, annegando [sì, è un riadattamento no spoiler].

Farewell Houdini, Farewell Lord of No Rings, un tifoso Bolts. 

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