Minnesota Vikings, quanta strada si può fare senza dominare?

Uno dei quesiti più gettonati di questa stagione di football americano riguarda senz’altro la misura della lunghezza del percorso che i Minnesota Vikings saranno in grado di eseguire da qui alla partenza dei playoff, territorio nel quale sono attesi per fugare i numerosi dubbi che attorniano il loro attuale record di otto vittorie ed una sola sconfitta, che in questo preciso istante è il migliore della NFL in co-abitazione con i Philadelphia Eagles. Capire tuttavia quale conformazione precisa possa avere la squadra allenata da Kevin O’Connell è esercizio assai complesso, perché la striscia attualmente aperta di sette vittorie consecutive – pur costituendo un numero di assoluto rispetto vista la difficoltà nel trovare costanza in una disciplina colma di variabili – è stata costruita su un esiguo differenziale di punti, un aspetto che evidenzia carattere ed estrema fiducia nei propri mezzi, ma non necessariamente l’automatica possibilità di approdare presso lidi di prestigio.

Se infatti si analizzasse l’andamento del campionato dei Vikings da un mero punto di vista collegiale, effettuando una sorta di ranking, ci si accorgerebbe di una sostanziale differenziazione nella qualità di questo 8-1 rispetto – per esempio – ad un 7-2 dei Chiefs, in quanto le prestazioni di squadra non evidenziano alcun criterio di dominanza, fondando il loro sostegno sulla totale mancanza di arrendevolezza ed il contemporaneo aumento di rendimento nei quarti periodi. Tratto somatico, questo, di una squadra senza dubbio pericolosa, la quale è capace di porsi nelle corrette condizioni mentali quando sopraggiunge il momento decisivo della partita, ovvero quando è necessaria la lucidità anche quando la stanchezza comincia a presentare il conto. Questi Vikings non si danno mai per vinti, nemmeno quando sono pesantemente sotto nel punteggio: poco importa quale mezzo utilizzino per giungere allo scopo, se una ricezione assolutamente irreale di Justin Jefferson, piuttosto che una galoppata di Dalvin Cook o il suicidio collettivo dell’avversario che hanno di fronte. Lo stato delle cose indica che la compagine in porpora riesce sistematicamente a reperire la strada corretta per portarsi a casa il risultato, senza condizionare la fiducia nei propri mezzi ad un risultato momentaneamente negativo.

Minnesota non è certo la squadra di maggior talento della lega, anzi. Si pensi a questo: Minnesota è solamente una delle due franchigie dal 1970 ad oggi ad aver inanellato sette successi consecutivi con un margine di vittoria di otto o meno punti. L’altra – e questo dovrebbe fornire una proporzione consona del metro di paragone di cui si parla – sono i Kansas City Chiefs del 2020, ovvero una macchina da guerra che aveva terminato la sua corsa al Super Bowl, nonostante la sconfitta patita contro Tampa Bay. A livello di creatività nell’ideologia offensiva, talento dei singoli giocatori (si pensi anche solo al triumvirato di allora, formato da Mahomes, Hill e Kelce), sensazione di padronanza del gioco, e abitudine nel confrontarsi con il top della lega, un eventuale paragone con gli odierni Vikings non comincia nemmeno.

Se si considera l’operato complessivo di Kirk Cousins, ci si accorge presto che la stagione sinora giocata dall’ex-Washington non è statisticamente paragonabile a nessuno dei quarterback che stazionano stabilmente nella top 15 del ruolo. Il suo attuale punteggio di 48.6 nel rating – calcolato con i parametri di Espn – se mantenuto sino a fine stagione sarebbe il suo peggiore sin dal trasferimento a Minneapolis; sopra di lui si trovano colleghi come Mitch Trubisky e Zach Wilson, non esattamente la crema della NFL. Captain Kirk ha già lanciato otto intercetti, e di conseguenza superato il totale – sette – del campionato 2021, anche se l’aspetto che colpisce più di altri è relativo alle 6.3 yard guadagnate per ogni playaction giocata, una discesa di quasi 3 yard rispetto alla media registrata nei tre anni precedenti in situazione analoga in uno schema dove Cousins ha sempre avuto una resa molto alta, penalizzando l’efficienza della miglior arma disponibile nel suo arsenale. La differenza più marcata rispetto al passato è costituita dalla vertiginosa progressione di rendimento nel quarto periodo, tanto che il regista si trova al primo posto di lega con ben cinque drive condotti a buon fine in fase di rimonta. Se da un lato gli svantaggi dei Vikings possono essere letti come una naturale causa dei numerosi errori che l’attacco commette nei primi tre quarti, dall’altro le rincorse coincidono con l’arrivo di una sveglia tardiva, a seguito della quale il reparto offensivo risulta letteralmente trasformato in efficienza.

La partita di Buffalo non costituisce certo un’eccezione, se non altro perché il 24-10 con cui i Bills stavano comodamente gestendo le circostanze era derivato esattamente da un paio di pessime decisioni del quarterback, macchiatosi di due intercetti evitabili per un veterano della sua esperienza, nonché dall’impossibilità di prendere una semplice yard in prossimità del two-minute warning del primo tempo, sprecando una preziosa opportunità di rientrare in gara. Chiaro, poi ci vogliono i singoli episodi e non tutti i giocatori sono in grado di crearli, e qui il fattore-superstar di Minnesota ha rivestito un ruolo predominante: senza le 81 yard messe assieme da Cook con un’azione scintillante non si sarebbero aperti gli scenari per una scarica adrenalinica mai così necessaria per togliere la squadra dalle sue stesse secche offensive, dando il là alla letterale esibizione circense del wide receiver più elettrizzante che vi sia in circolazione. Per quanto Jefferson sia stato immenso nel riscrivere la definizione di impossible catch, era comunque necessario porre le condizioni affinché queste ricezioni potessero perlomeno essere tentate, e va dato atto a Cousins di aver piazzato l’ovale con ottimi istinti e lodevole puntualità se considerata la situazione di gioco spesso proibitiva per distanza dal primo down, nonché la pressione montante del trascorrere dei minuti. Il regista ha sviluppato una piacevole abitudine nell’infuocarsi in prossimità degli ultimi quarti, e per il momento questa peculiarità gli è stata più che sufficiente per alimentare la catena di risultati positivi.

L’improvvisa alta temperatura raggiungibile dal gioco aereo è stata essenziale per mascherare l’inattesa inefficienza del gioco di corse, a volte impossibilitato a creare guadagni consistenti, a volte semplicemente abbandonato per non perdere troppo tempo, dovendo così spesso recuperare il risultato. I Vikings sono infatti venticinquesimi di lega per tentativi a terra, e ventitreesimi per yard: il fatto che siano terzi per touchdown su corsa è una statistica deviante, e sta semplicemente a significare che quando giungono in prossimità della endzone le possibilità di segnare sono alte, ma vengono comunque create dai posizionamenti conseguiti con i lanci, in un gioco che si è arricchito dell’interessante presenza del tight end T.J. Hockenson, determinante nel collezionare 115 yard con l’84% di successo nella proporzione tra ricezioni e target, apportando una nuova dimensione dinamica alla posizione. L’andamento del rushing game è altresì testimoniato da una statistica-chiave: senza quella corsa di 81 yard, il fatturato complessivo di Cook sarebbe stato di 38 misere yard in 13 tentativi, ben poca cosa rispetto alle potenzialità del prodotto di Florida State.

La situazione difensiva non è poi così diversa dalla controparte sinora analizzata, nel senso che permane la tendenza nell’elevare il rendimento esclusivamente in determinate circostanze. Il reparto coordinato da Ed Donatell non è molto consistente nell’arrivare al quarterback, generando pressione solamente nel 19.8% dei dropback del regista avversario, un dato significativo per una filosofia impostata su abbondanti concessioni di terreno, una conseguenza logica per un front seven impostato con uno scarso utilizzo dei blitz lasciando quindi un carico di lavoro non indifferente alla linea, in particolare a Danielle Hunter e il sinora ottimo Za’Darius Smith, quest’ultimo già firmatario di 9.5 sack. L’inefficienza nel difendere la redzone, in particolare fuori casa, ha dettato tutta la storia del primo tempo giocato contro i Bills, i quali hanno raggiunto la endzone nel 75% dei casi in cui hanno varcato al linea delle 20 yard avversarie, un dato perfettamente in linea con l’andamento stagionale complessivo, dato che in trasferta, in situazioni analoghe, il reparto è responsabile di una percentuale del 87.5%.

La differenza la fanno sempre i quarti periodi: complici le pessime decisioni di Josh Allen ed il fumble suicida commesso dai Bills nella loro area di meta, i Vikings hanno portato a casa un touchdown e due intercetti sommando il quarto conclusivo ed il supplementare, riducendo a tre soli punti il fatturato avversario in posizionamenti interni alle ultime 20 yard. E’ una difesa che tende a subire parecchio ma che sa stringere le viti corrette quando serve, come dimostrano le piccole giocate decisive che puntualmente forniscono nuove opportunità all’attacco, contribuendo a creare i presupposti per il recupero del risultato. La meta di Eric Kendricks, lesto nel tuffarsi sul pallone nell’incredibile confusione di corpi in occasione del sopra menzionato fumble di Buffalo, i due intercetti di Patrick Peterson, ancora capace di effettuare azioni decisive nonostante sia considerato in fase declinante di carriera, e i passaggi difesi da Duke Shelley, pescato in settimana dalla practice squad e responsabile di una gran marcatura su Dawson Knox nel supplementare, rappresentano un insieme di giocate da squadra che sa vincere nei momenti che scottano di più.

L’impressione è che sia sempre più difficoltoso tracciare un giudizio definitivo sui Vikings, soprattutto considerata la quasi insormontabile leadership divisionale che rischia di alterare un tantino i valori visti in campo. Minnesota ha ben quattro vittorie in più rispetto ai Packers, il che significa cominciare ad avere grosse rassicurazioni sulla futura qualificazione alla postseason, trovandosi a dover gestire possibili cali di tensione dovuti alla reale mancanza di concorrenti, a meno di una clamorosa rimonta da parte di Aaron Rodgers e compagnia. Sarà determinante, per valutazioni più accurate, il doppio impegno che porrà dinanzi ostacoli molto tosti come Dallas e New England nelle prossime due giornate, per poi affrontare gli insidiosi Jets e cominciare il ritorno interno alla NFC North tutto in trasferta, fornendo alla franchigia di Minneapolis altri test ad alto quoziente di difficoltà, permettendo di comprendere meglio fino a dove la rabbia per la sottovalutazione e la coscienza di sé riuscirà a colmare l’assenza di prestazioni dominanti.

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