Può succedere di tutto, ma non succede mai niente

Nell’idea che ci perseguita da un po’ di anticipare una finale di Champions League con un articolo ricco di (inutili) curiosità, che trovereste anche su Wikipedia, abbiamo deciso di infilare in un unico post, giusto per semplificarvi la vita, una serie di numeri e dibattiti che stanno a zero ma che cascano a fagiolo con il ritorno in finale di un’italiana (nel senso che l’attenzione del lettore medio della nostra penisola è più alta se c’è una nostra rappresentante in finale). Di certo un ritorno inatteso, assolutamente non pronosticabile ad inizio anno, ma che ha preso forma col passare del tempo, con tre squadre finite alla fase ad eliminazione diretta e, subito dopo, incastrate nella metà “debole” del tabellone dal sorteggio che metteva Paris, Bayern Monaco, Real Madrid e Manchester City, ovvero il gotha del calcio mondiale, tutte sul lato opposto a quello delle nostre tre portabandiera.

L’inevitabile scontro diretto tra due di loro, poi, garantiva un posto sicuro in semifinale e l’unica straniera sopravvissuta, il Benfica, non sembrava (e non è stata) l’ostacolo più insuperabile per l’Inter di Simone Inzaghi. Attenzione, non vogliamo banalizzare: un quarto di finale va giocato e vinto contro chiunque; pressione e difficoltà si alzano all’inverosimile in questi confronti, ma è evidente a tutti che se le due formazioni meneghine fossero finite nel tritacarne dell’altra metà del cielo nessuno si sarebbe giocato anche un solo centesimo sulla loro possibilità di arrivare in semifinale. Per com’è andata, invece, abbiamo avuto una meravigliosa riedizione dell’euro-derby del 2003, un anniversario stavolta celebrato dai nerazzurri e che avrebbe appunto garantito, in ogni caso, un’italiana alla finalissima di Istanbul del 10 giugno. Il tutto in una stagione che ha visto ben tre italiane tornare in finale, con la Roma purtroppo già battuta, ai rigori, dal Siviglia in Europa Leauge e la Fiorentina in attesa del West Ham in Conference.

L’altra semifinale di Champions, per chi si fosse appena ripreso da un coma, è stata quella del Real Madrid contro il Manchetser City, una riedizione del penultimo atto del 2022, stavolta meno rocambolesca ed appassionante e che ha visto la vittoria del City, con gli uomini di Pep Guardiola che hanno così vendicato l’incredibile eliminazione di dodici mesi fa anche se, per molti osservatori, quello a cui abbiamo assistito è stata una sorta di “gara 2” di una rivalità che potrebbe monopolizzare il calcio europeo per il prossimo lustro.

E così la finale diventa City-Inter e, ovviamente, comincia più o meno subito il valzer del “in gara secca può succedere di tutto”. Un classico, a dire il vero cominciato già durante la semifinale tra tifosi delle opposte fazioni (“vinciamo il derby, poi non si sa mai…”). La frase più abusata del calcio (e probabilmente non solo) spremuta dagli scaramantici, ma anche da chi tifa contro per potersi difendere dagli sfottò eventuali (“lo avevo detto che può succedere di tutto, per chi mi hai preso?”). Poi ci sono quelli che devono “vendere” la partita in TV, quelli che devono trovare un senso alla finale e i tifosi della squadra sfavorita, che devono trovare almeno un valido motivo per non andare al cinema proprio in quella serata: in gara secca può succedere di tutto. Tralasciando l’altrettanto abusato ed inutilmente minaccioso “non succede, ma se succede…” che non si è mai ben capito a quale strano esito dovesse portare l’esistenza della persona che lo scrive seguito poi da varie mincacce (tipo “esco il ca**o in chiesa e faccio l’elicottero”), vale la pena, una volta per tutte chiedersi che peso abbia, nella storia, la “gara secca” e tutta la leggenda che si porta dietro e darsi finalmente una risposta.

E’ vero che in una partita unica può succedere di tutto? Ovviamente la risposta è “sì”: si parte dallo 0-0 e dal presupposto che se due squadre si affrontano nella medesima competizione, potenzialmente, i mezzi per portare a casa il bottino pieno stanno da ambo le parti anche se in proporzioni ovviamente diverse. E poi la palla è rotonda, il calcio è fatto di episodi, se non segnano nei primi dieci minuti se la fanno sotto eccetera… insomma, la risposta è senza dubbio “sì”.

In questo caso, però, la risposta va contestualizzata, infilata nell’evento a cui stiamo per assistere, ovvero nella partita più importante dell’anno, che per alcuni può valere addirittura una intera carriera e che altri grandi del calcio magari non hanno mai nemmeno giocato: davvero può succedere qualunque cosa? Stando alle regole scritte sopra la risposta rimarrebbe la stessa, ma se andiamo a vedere quante volte è realmente accaduto che il pronostico venisse clamorosamente sovvertito e stabiliamo che sia un rapporto percentuale a dirmi se la risposta corretta è “sì” o è “no” la visione cambia? Riformulo per il lettore medio di questo sito che notoriamente non è molto concentrato quando ci legge: se vi dicessero che uscendo di casa domattina facendo le cose che fate tutti i giorni avreste il 3% di possibilità di morire farebbe differenza davanti ad un 97% di possibilità di non sopravvivere in altra occasione? Crediamo di sì, e crediamo quindi che, se anche dal momento in cui uscite di casa “può succedere di tutto”, nella seconda ipotesi voi non uscireste mentre mettereste la prima nel mazzo delle “probabilità”.

Il gioco più inutile del 2023 si basa quindi sulla semplice idea che il 10 giugno non succederà di tutto, ma il Manchester City diventerà la sesta squadra inglese a vincere il trofeo più importante d’Europa e il più prestigioso del calcio mondiale per club. Perché lo dicono la storia e perché accade più spesso che un Empoli o un Monza espugnino San Siro in campionato che non che l’Amburgo vinca la coppa dalle “grandi orecchie”. Situazioni diverse, campionati diversi, condizionamenti tecnico-tattici diversi. Quindi, mediamente, non succede.

Non succederà non tanto perché Pep Guardiola sia in grado di preparare meglio la partita del collega che siede sull’altra panchina e che una finale di Champions League, finora, la conosceva solo perché il fratello ne ha vinte un paio, ma perché l’organico dei Citizens è superiore: ha un undici strutturato e riserve all’altezza di una finale del genere e da anni domina il campionato più impegnativo del mondo, la Premier League, anche se presto la giustizia sportiva inglese potrebbe darci notizie interessanti sul fronte “investimenti”.

Il City ha l’attaccante più prolifico d’Europa, uno dei centrocampisti offensivi migliori della sua generazione, ha una fase offensiva veloce e tecnica, un centrocampo solido e inventivo, una difesa di livello; il punto debole potrebbe essere il portiere, ma palloni da quelle parti ne passano (e ne passeranno) pochissimi. Inoltre il City ha clamorosamente fallito l’occasione due anni fa, perdendo col Chelsea, e difficilmente sbaglierà una seconda volta in così poco tempo. La pensano come noi i bookmaker, gente che di mestiere non può perdere troppo denaro e di solito è in attivo: l’ultima volta che abbiamo guardato, circa una settimana fa, le quote pro inglesi ballavano tra 1.38 e 1.47, quelle dell’Inter tra un onorevole 4.50 su Novobet ad un più realistico 7.50 su Leovegas, quota simile a quella dei grandi nomi del betting online che si aggirano tutte intorno al 7 tondo tondo.

Chi sa come si leggono i numeri delle quote capisce che secondo i bookmaker il City, tenuto a 1.40 per comodità, ha il 71,5% delle possibilità di vincere (in questi casi si parla dei 90 minuti regolamentari), l’Inter il 14,3% (tenendo quota 7.00); il rimanente 4.2% vedrebbe un pareggio ma stando alle quote, per l’assegnazione del titolo, dovremmo dare un 3,78% di quella cifra al City e uno 0,42% ai Nerazzurri. Risultato finale: City vincente al 75,28% delle possibilità.

Ora, detto che a giudizio di chi scrive gli uomini di Guardiola hanno almeno dieci punti percentuali in più di quanto non ci dicano questi calcoli, potremmo sostenere che 75% sia la soglia oltre la quale una vittoria è scontata, cioè dove la sproporzione è incolmabile sul campo a meno che il favorito non riesca nell’impresa di sbagliare tutto. E se tutti ricordano Amburgo-Juventus, quando si parla di queste cose, è proprio perché è una eccezione clamorosa. Potremmo andare oltre e, per fare conto tondo, dire che quella misura se non riferita al solo risultato 1X2 ma all’assegnazione del trofeo è un 80%, cioè se giochiamo la finale 10 volte il City la vince in 8 occasioni e l’Inter soltanto in 2 perché, andando ai rigori almeno una volta su dieci, vincerebbe nel 50% dei casi. Plausibile. Andiamo quindi a vedere, senza scomodare le quote che un tempo nemmeno c’erano, quante volte è realmente accaduto che si verificasse l’imprevedibile ribaltone di una proporzione 8 a 2, per capire se si è trattato di un’eccezione e, come tale, rimarrà unica, o se invece può succedere di tutto. Per davvero.

Ognuno può farsi le proprie opinioni, ovviamente, in merito alle dimensioni espresse in campo agli esordi della competizione, ma secondo noi nessuna delle finali tra la prima edizione del 1955 a quella del 1967 ha visto colpi di scena. Il Real Madrid, squadra più forte del primo periodo di calcio europeo, le ha vinte tutte, fermandosi solo contro il Benfica di Eusebio e l’Inter di Herrera, in gare dove, anche volendo vedere favoriti i Blancos, il rapporto era più o meno sul 50-50. La prima sorpresa è quella del Celtic quindi, che a Lisbona ha la meglio dell’Internazionale del Mago; nerazzurri favoriti ma non parliamo di possibilità nulle o quasi per gli scozzesi. Universalmente quella partita è considerata la chiusura del ciclo di HH, quindi l’Inter è in calo, è senza Luis Suarez e affronta una squadra piuttosto solida che giocherà un’altra finale 4 anni dopo, persa ai supplementari contro il Feyenoord. Inter favorita, ma siamo lontani dal baratro dell’80-20. Il tutto prosegue senza grandi scossoni né particolari sorprese, si entra nell’epoca delle nuove “dinastie”; l’Ajax del calcio totale ne vince 3 di fila, poi tocca al grande Bayern Monaco di Franz Beckenbauer con il medesimo risultato. Il Liverpool vince 3 finali in 5 stagioni, in mezzo la grande sorpresa del Nottingham Forest, che però in quella fase ha costruito un impianto vincente come pochi e in finale batte Malmo e Amburgo, quindi non sovverte nessun destino già scritto.

La partita delle partite è proprio quell’Amburgo-Juventus con l’Italia campione del mondo “più Platini e Boniek” che impatta nella serata più storta di ogni epoca. La sconfitta è la più nefasta della storia bianconera, non solo per il pronostico (qua secondo noi tocchiamo il 90 a 10), ma anche per l’evoluzione della gara, visto che i tedeschi andarono in vantaggio prestissimo e la Juve non trovò il modo di rimediare pur con tutta la partita ancora da giocare. L’anno prima desta sorpresa anche Aston Villa-Bayern Monaco, vinta dagli inglesi per 1-0 (dal 1976 8 finali su dieci sono finite con questo risultato) ma alcune considerazioni sono d’obbligo: il calcio britannico di club in quegli anni è dominante, molte squadre che oggi consideriamo senza particolare storia vincono o, comunque, fanno molto bene in Europa, oltre al già citato Forest e ai Villans, giova ricordare l’Ipswich Town che vinse una Coppa Uefa, il Leeds United finalista di Coppa Campioni e, sponda scozzese, persino l’Aberdeen di Alex Ferguson che vince una Coppa delle Coppe battendo il Real Madrid in finale nel 1983. Il Bayern Monaco, di suo, era in piena transizione tra quella che non era più la squadra del Kaiser Beckenbauer e di Karl-Heinz Rummenigge, e quella che sarebbe diventata di Lothar Matthaus. I tedeschi erano certamente favoriti (più forti ed esperti) ma 80-20 è un rapporto che non ci sta, anche se è una gara che possiamo mettere tra le “sorprese”.

Altri “colpi” senza quelle proporzioni ma sicuramente sorprendenti saranno quelli della Steaua Bucarest vincente sul Barcellona ai rigori nel 1986 (risultato sul campo 0-0) e quello del Porto dell’anno successivo, di nuovo perdente il Bayern Monaco, nel clamoroso ribaltone che vide i lusitani rovesciare lo svantaggio per 0-1 in tre minuti con le reti di Rabah Madjer (il tacco di Allah) e Juary. Destino che i bavaresi rivissero in chiave ancora più sadica, dodici anni dopo, al loro ritorno in finale, contro lo United di Ferguson.

La Steaua riuscì a vincere in terra spagnola portando gli avversari ai rigori in quella che se non era un 80-20 era considerata quantomeno un 70-30. Bisogna però essere un po’ più precisi. Quella formazione di Bucarest contava nei fatti su svariati giocatori nel giro di una buona e solida nazionale, aveva due o tre elementi di talento (su tutti Marius Lacatus, che poi fallì nel suo girovagare in Europa) ed era sostanzialmente malvista soprattutto per via di un gioco catenacciaro e basato sulla distruzione delle trame avversarie. Poche idee ma sorteggi positivi avevano spinto i rumeni fino a Siviglia. A rileggere l’undici di quel Barcellona, però, non si intravedono i lineamenti della formazione immortale. Certo erano più quotati, giocavano meglio e tra le mura spagnole (ma tanto i tifosi rumeni si potevano muovere a decine e solo se con qualche grado di parentela con Ceausescu), avevano eliminato la Juventus campione in carica, ma i favori si fermavano oggettivamente a questi dati, non ad una scontata forza superiore.

Più complicata la questione Porto-Bayern perché gli iberici erano sì piuttosto inferiori sulla carta, ma avevano comunque qualche giocatore, su tutti Paulo Futre, con in canna qualche colpo importante. Lo stesso Madjer era eccessivamente sottovalutato in quanto algerino, quindi figlio di un calcio minore, ma nascondeva un discreto fiuto per il gol e un tocco di palla non indifferente. In un calcio meno globale di quello di oggi, qualche articolo sui giornali e tre highlight su Rai Due, spingevano spesso il tifo a volare dietro le opinioni comuni e ai preconcetti così come il vento sposta le foglie cadute a terra a proprio piacimento. Il Bayern aveva rifilato 5 gol all’Anderlecht e 4 al Real Madrid, aveva una buona ossatura ma, come talento puro, abbiamo l’impressione che fosse lontano dall’essere una vera schiacciasassi. Il capitano, Lothar Matthaus, era già un calciatore affermato e di altissimo livello, Andreas Brehme faceva la differenza in fascia per come lo abbiamo sempre conosciuto ma, ad esempio, il terminale offensivo era un Rummenigge che di nome faceva Michael e non Karl-Heinz. Il terzo vero grande giocatore di caratura internazionale era il portiere, Jean-Marie Pfaff; per carità, l’estremo difensore fa parte degli undici e averlo forte aiuta in tante occasioni, ma l’impressione è che quella squadra fosse la “classica” formazione teutonica, tutta muscoli e pressione. Un paio di buoni piedi qua e là ma molto veniva giocato sulla prestanza più che sul talento, tanto che molti di quei giocatori sì e no rimasero nei radar della nazionale un paio di mesi o poco più e, molti di loro, non li si ricorda nemmeno dopo aver riletto la biografia su Wikipedia. Più forte del Porto, probabilmente sì, in termini assoluti. Ma non così tanto più forte. Anzi, è bastato un Juary in forma per sconvolgere una partita che, a livello di occasioni, si è mostrata molto più aperta del previsto.

Il calcio prosegue senza troppi scossoni e, come accade in molti campionati nazionali, si entra in un futbol globalizzato dove la tendenza alle sorprese è in netto calo e i potentati economici applicati al mondo del pallone danno i loro frutti. Su tutti il Milan di Berlusconi, tra le squadre più forti per oltre due decenni, capace di perdere anche svariate finali dove però non ha quasi mai avuto un vantaggio così schiacciante come quello di cui stiamo parlando (quando lo ha avuto ha messo 4 pere nella rete della Steaua e arrivederci). Così, sfogliando l’albo d’oro, dopo i meravigliosi Anni Ottanta non ci sono più storie da raccontare, vince sempre chi è favorito e, quando questo non succede, lo sfavorito non è più una squadra all’esordio della competizione come l’Aston Villa e schiera nomi piuttosto celebri. Rileggetevi le rose dell’Olympique di Marsiglia (1993), della Stella Rossa (1991) o quella dei fantastici ragazzini dell’Ajax (1995). Una sorpresa è quel Milan-Barcellona 4-0 del 1994, ma per la dimensione del risultato e non certo per la vittoria del Milan che era sicuramente visto come sfavorito ma la proporzione non poteva essere quella di cui stiamo parlando oggi, anzi. Stiamo accennando ad un Milan che stava per giocare la seconda di tre finali consecutive, la quarta di cinque in sette stagioni. Quanto potrai essere sfavorito con questi numeri? Oltre il 60-40 è davvero difficile andare e bisogna essere generosi col tuo avversario.

Per scovare un altro ribaltone clamoroso tocca quindi aspettare di nuovo la Juventus, di nuovo contro una tedesca, e assistere al clamoroso 3 a 1 che il Borussia Dortmund rifila all’undici di Marcello Lippi nello stadio degli acerrimi rivali del Bayern. La Juve perderà anche l’anno seguente contro il Real Madrid, da favorita, ma non così tanto favorita come contro i gialloneri. Quello del 28 maggio 1997 è l’ultimo vero grande ribaltone prima di due incredibili episodi, uno dei quali con delle specifiche di cui dovremmo ragionare con calma e che riprenderemo più avanti. Il primo episodio ci riporta proprio ad Istanbul, 25 maggio 2005, Milan-Liverpool. I Rossoneri sono favoriti, difficile dare delle proporzioni ma sicuramente anche solo a livello di esperienza non c’è partita. Quello che però passa alla storia è, ovviamente, il modo in cui quella sconfitta è maturata, dal 3 a 0 del primo tempo ai dieci minuti di isteria collettiva della ripresa che hanno permesso ai Reds di portare la gara in parità per poi vincerla ai rigori. Quel Liverpool, teso ed intrappolato nelle proprie paure, era però una squadra molto più organizzata di quanto noi non ricordiamo, schierava alcuni giocatori di grandissimo livello, giocò una finale anche due anni dopo, sempre col Milan, stavolta perdendola (ma giocando nettamente meglio). Insomma, Liverpool sfavorito e, a fine primo tempo sotto ad un pronostico pari al 99,99%, ma prima della gara forse non così tanto battuto. Giudicate voi, ma qua non parliamo dell’andamento della gara, altrimenti anche per Manchester United-Bayern del 1999 dovremmo arrampicarci su ragionamenti strani visto l’andamento, decisamente fortunoso, per gli uomini di Alex Ferguson, i quali però, al fischio d’inizio, non partivano di certo battuti, anzi. Il Liverpool che sconfisse quel Milan aveva tanta esperienza e tanta qualità in meno dell’avversario guidato da Carlo Ancelotti, ma non schierava Jerry Mbakogu, Riccardo Gagliolo e Lorenzo Pasciuti (con tutto l’affetto che proviamo per loro), ma gente come Steven Gerrard, Xabi Alonso, Traorè, Milam Barros, il tuttofare John Arne Riise. Insomma, era difficile credere in questa squadra, ma l’impossibile lo hanno compiuto i tre giocatori del Carpi portando i Biancorossi in Serie A, non certo questi vincendo la Champions Leauge.

Il secondo colpo di scena è quello già citato in avvio di due anni fa, il Chelsea che batte il Manchetser City con qualche polemica sulla formazione messa in campo da Guardiola. Citizens ampiamente favoriti, lascio a voi stabilire se 80-20 o no. Personalmente diremmo di no. Quel Chelsea non era uno squadrone ma era una formazione piuttosto solida, era arrivata quarta in Premier e si era giocata la finale di FA Cup (persa) e in campionato era già riuscita a rifilare una delle poche sconfitte patite dagli Sky Blues. Un Chelsea più “debole” ma che conosce l’avversario, che calca i suoi stessi campi e sa gestirne il ritmo, ha una squadra non fenomenale ma solida ed esperta. E, anche qua, a sporcare il ricordo, a modificare il punto di vista, è l’andamento della gara, è il Chelsea che riesce a non far segnare il Manchester City, squadra votata alla costruzione offensiva e che in quell’edizione rimase a zero solo col Porto nell’ininfluente quinto turno del girone di qualificazione, con una media di 2 gol segnati a partita fino all’ultimo atto e di 0,3 subiti (uno solo nelle sei partite del girone). Insomma, i numeri e le statistiche sono impietosi, l’esito della finale incrociato a questi dati quasi sconvolgente, ma non sappiamo se metteremmo questa partita tra gli 80-20 per quanto detto sopra sul Chelsea.

Partite come Amburgo-Juventus, invece, sono al limite del credibile, rappresentano persino un alibi per i terrapiattisti. Ovviamente, come abbiamo visto, questi ragionamenti fatti “dopo” ci raccontano storie diverse da quelle che erano in ballo prima del fischio d’inizio. Il Liverpool di Istanbul, l’Aston Villa o il Celtic, persino la Juventus del 1996 che, contro l’Ajax, ottenne un risultato straordinario che per molti di quelli che avevano negli occhi i Lancieri dell’anno precedente non era minimamente preventivabile. Ma al netto degli assolutismi di qualche scienziato pazzo, difficilmente tra due squadre che arrivano in finale può esistere il “nessuna chance” per la formazione che sulla carta è inferiore. Anche se, come abbiamo visto, quella più “debole”, se davvero inferiore, non vince praticamente mai. Per caratura tecnica schierata in campo, l’unico vero 80-20 ribaltato (ma era un 95-5, come detto), fu quello della notte di Atene tra Amburgo e Juventus. Leggendo i nomi il City di oggi non è probabilmente forte come quella Juve, ma è dominante in patria allo stesso modo, mentre l’Inter è probabilmente meglio di quella formazione tedesca a fine ciclo ma non vanta la stessa esperienza al momento della finale (l’Amburgo di quella sera era alla fine di un percorso che l’aveva vista, in sei anni, vincere tre titoli tedeschi, una Coppa delle Coppe e giocarsi un’altra finale di Coppa Campioni 3 anni prima). Inoltre, uno dei problemi spesso sottolineati rispetto a quella finale, fu il fatto che il gioco di Giovanni Trapattoni non fosse adatto a risolvere una situazione di svantaggio alla quale i Bianconeri, per altro, non erano abituati (imbattuti nella competizione), problema che non sembra riguardare il City di Guardiola, una macchina da gioco che non guarda al risultato.

Se quindi vogliamo considerare Manchester City-Chelsea come una delle eventualità del calcio che punisce quelli bravi, ossia ciò che può realisticamente accadere quando ci si specchia nella propria bellezza, l’unica vera finale che metteremmo sotto la teca dell’80-20 è proprio Juventus-Amburgo. Nemmeno contro il Borussia Dortmund la Juventus, seppure favorita, aveva un pronostico così sfacciatamente dalla sua parte. Forse perché era divertente pensare che gli “scarti della Serie A” non fossero all’altezza e ci si lasciò andare a tanto sarcasmo prepartita, ma incontrare un undici formato, tra gli altri, da Matthias Sammer, Jurgen Kohler, Stefan Reuter, Andreas Moller, Paulo Sousa e Karl-Heinz Riedle non era esattamente come affrontare il Monza o l’Empoli, che pure San Siro l’hanno sbancata.

Ma quindi, in gara secca, può finire in ogni modo? Per noi rimane quello che è successo ad Atene e basta, consapevoli, lo ribadiamo, che alcuni giudizi siano sporcati da ragionamenti successivi (non avrei giocato i vostri soldi su Dortmund del 1997 nemmeno sotto minaccia, figuriamoci i miei, di soldi). Ragionamenti che, inoltre, sono anche sempre stati condizionati da una certa stampa patriottica che, soprattutto nell’era pre-web, faceva la voce grossa con analisi che erano difficilmente contestabili per il periodo. L’anno dopo la disfatta di Monaco la Juventus di Lippi giocò l’atto finale ad Amsterdam, contro il Real Madrid. Ricordiamo bene quel periodo e di come i bianconeri venissero visti come strafavoriti ma, di grazia, per quale motivo inserire quello “stra” se non per via di un nazionalismo totalmente avulso dalla realtà come lo sono tutti i nazionalismi? La Juve poteva vantare esperienza, era alla terza finale consecutiva (dovremmo far valere una qualche legge matematica?) e si pensava che mentalmente non avrebbe sbagliato partita. Davvero, crediamo che nessuno abbia ancora capito perché la Juventus avrebbe dovuto fare un sol boccone di una squadra che scendeva in campo con Illgner, Panucci, Sanchis, Hierro, Roberto Carlos, Redondo, Karambeau, Seedorf, Raul, Morientes, Mijatovic. Ammettiamo di aver visto squadre più scarse e pensiamo che mettere sotto il 20% di possibilità di vittoria un undici così sia scellerato. Anche sotto il 40, sembra un azzardo eccessivo.

Non buttandoci su troppe competizioni ma rimanendo su ciò che è internazionale ed ha quindi un certo peso “per tutti”, sottoponiamo la stesso ragionamento su due competizioni per nazionali che potete consultare agevolmente, i mondiali e gli europei (ovvero il mondiale senza Brasile e Argentina). Alla competizione creata da Rimet l’unica vera sorpresa clamorosa è il Maracanazo, anche per via del fatto che quella “gara secca” non era una finale e al Brasile bastava il pareggio (in casa) per diventare campione del mondo. Estremamente sorprendente fu anche Germania Ovest-Ungheria del 1954, con vittoria dei tedeschi, ma i lati oscuri su quella partita sono troppi e ci porterebbero ad altre discussioni politiche, o forse mediche, per cui sospendiamo il giudizio (ma la differenza tra le due squadre era abissale, 99-1 oseremmo dire). Per il resto nessun 80-20. Europei di calcio? Qui qualche sospesa in più: la Cecoslovacchia del 1976 contro i tedeschi campioni d’Europa e del mondo, la storica Danimarca del 1992 e la Grecia del 2004 (80-20 per tutto il torneo praticamente). I campionati per nazioni però si prestano a ragionamenti ben più ampi in quanto le partite secche nelle quali può succedere di tutto sono tutte quelle dopo i gironi e questo fa sì che, chi è arrivato in finale, abbia già sorpassato, anche psicologicamente, la difficoltà dell’essere, eventualmente, estremamente sfavorito. Senza nulla togliere alle prime due, poi, la Grecia ha affrontato una gara in più a eliminazione diretta, ha battuto i padroni di casa del Portogallo due volte e ha vinto sul campo tutte le partite, al contrario di Cecoslovacchia e Danimarca che passarono una volta a testa dai rigori (situazione nella quale si è sempre 50-50). Questo per dire che l’Amburgo della nazionali è la Grecia del 2004.

Le sorprese nel calcio non mancano, forse più di ogni altro sport si presta al sovvertimento del pronostico ma alla fine, come abbiamo potuto vedere, non è nemmeno così frequente, almeno quando conta per riscrivere l’albo d’oro e, in fin dei conti, quello stesso albo è costituito per il 95% dei casi dalle squadre storicamente più forti, magari anche solo per una breve fase della loro storia, ma comunque più forti nel momento in cui serviva esserlo. Siamo stati abituati a tanti scivoloni durante gli anni, la cenerentola che espugna San Siro, il Maradona o lo Stadium, ma sono parti di un campionato che va visto sul periodo di 8 mesi, sulla gestione della rosa, del turnover, del momento in cui capita quella partita. Le finali no, le finali sono il momento dove tutto è pronto, dove si può sbagliare ogni cosa o azzeccarle tutte, ma dove sembra inevitabile che, nei 90 minuti, storicamente riesca ad emergere chi è più forte e, quando questo non succede, ci si rende spesso conto che non si era di fronte all’impossibile ma ad una possibilità che avrebbe potuto verificarsi anche 3 o 4 volte su dieci, cioè quasi lo stesso numero di volte del suo contrario.

Amburgo-Juventus rappresenta un’incredibile eccezione, ma “eccezione” è un termine singolare e non si vede quindi perché dovrebbe capitare ancora. E perché proprio il 10 giugno. Sentiamo molti insistere su Chelsea-Manchester City ma, anche volendo stare su un un pronostico folle, 80-20 o peggio, vediamo troppe diverse condizioni su ciò che era, in quel momento, quel Chelsea e ciò che è oggi questa Inter. Il risultato è quindi che dovremmo dire che, una volta, tanto tempo fa, ad Atene, in una finale di Coppa dei Campioni è successo di tutto. Non era mai successo prima e non è più successo dopo. In gara secca può succedere di tutto; ma anche no.

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