Budapest 2023 – Diario di un viaggio

Questo è un diario, un diario di certo non breve, un diario di un viaggio sia fisico che sportivo. Fisico perché ho avuto l’ardire di andarmi a seguire le gare di atletica allo stadio (e in strada) per la (quasi) prima volta in vita mia (e che gare, quelle del mondiale appena conclusosi a Budapest), sportivo perché il mondiale con i suoi turni, gli atleti che si destreggiano in più discipline, le sue storie e le sue meraviglie è una sorta di viaggio che si dipana tra 5 continenti, 202 nazioni rappresentate, più di 2000 atleti e (alla fine) 148 medaglie assegnate.

Dentro a questi numeri c’è un mondiale e un mondo che vale la pena essere raccontato per quello che ho vissuto nei 9 giorni che vanno dalla pioggia di sabato 19 agosto che fa rimandare di 2 ore la marcia 20 km maschile fino all’ultimo salto dell’ucraina Mahuchikh (a oro già conquistato), una conclusione quasi allegorica che ci fa saltare fuori dal mondiale ricordandoci cosa c’è ancora fuori da questo stadio con il confine di uno stato, che è in guerra da un anno e mezzo, a meno di mille km da Budapest.

Lo stadio toglie, lo stadio dà:

Come accennato prima era la mia quasi prima volta: ho visto qualche campionato nazionale indoor (che si svolgono “in casa”, ad in Ancona) ed avevo visto una gara di salto in alto, nell’estate del 2020, in periodo di covid, organizzata da Tamberi sempre in Ancona.

Non avevo esperienza dello stadio e ammetto che il primo impatto è stato un po’ spaesante per non dire peggio: intanto anche causa rinvio della marcia sono arrivato a gare già iniziate, c’era in corso il turno preliminare dei 100 metri maschili, le qualificazioni del lungo femminile (con Larissa Iapichino), l’alto dell’eptathlon e le qualificazioni del martello. Insomma non sapevo dove guardare e non era facile capire chi stesse facendo cosa. A questo poi ci va aggiunto che semplicemente non sei alla TV e quindi la visuale è particolare:

Ecco: laggiù c’è l’arrivo, in mezzo altre duecento cose e persone che si muovono e vivono di vita propria, a destra si intravede la gabbia del martello/disco compagna (inizialmente sottovalutata) di quasi tutta la manifestazione, che aveva anche l’onore di impallare la visione dei due maxi schermi posti sopra l’altra curva.

Ci sono voluti due bei respiri, il live del sito via cellulare (più o meno funzionante durante la settimana), l’aiuto di due compagni di tifo e di abbonamento (Angelo e Claudio) conosciuti meglio poi e un po’ di esperienza per entrare nel mood giusto ed iniziare ad avere i punti di riferimento giusti per capire più o meno le posizioni delle corse all’arrivo, come fare a non perdersi i salti o i lanci di quelli più interessanti ed iniziare ad apprezza tutto ciò che un divano ed una tv non ti può mai dare. La vicinanza degli atleti, i loro sguardi quando andavano a parlare con gli allenatori 2 file davanti a me ed in generale l’atmosfera davvero mondiale per varietà di popoli che si riesce a respirare solo camminandoci in mezzo e sentirsi parte di un tutto.

Questo poi raggiunge il suo massimo quando puoi finalmente esultare per qualcosa di collettivo, che va al di là del semplice urlo davanti alla televisione o un post sui social. Un salto di Duplantis, un sorpasso all’ultimo tentativo (e ce ne sono stati tanti, su tutti il finale del disco maschile: Ceh e Stahl), un oro vinto da un tuo connazionale (…Gimbo!), sentirti veramente una parte di un qualcosa, chiaramente una parte minuscola, un contorno, ma partecipante e presente. Questo, per come la vivo io (immagino non sia così per tutti), va al di là del vedere bene la linea di arrivo o il punto di atterraggio di un salto. Ci ho messo due respiri e qualche accorgimento, ma me la sono davvero goduta.

Day 1 (sabato 19):

Pronti, via e arrivato subito il primo intoppo (di una organizzazione che in realtà è stata perfetta nel gestire code, ingressi, file e quant’altro): a pochi minuti dall’inizio ufficiale dei mondiali, con la marcia 20km maschile prevista per le 8.50 agli altoparlanti sul percorso avvisano che quelle nuvole che effettivamente sembrano minacciose tra poco scaricheranno un violento temporale su Budapest e l’inizio della marcia è rinviato di 2 ore. Bene, primo pensiero: tutto il mio progetto di vedere la marcia e poi andare allo stadio (30 minuti circa con i mezzi vari) e perdermi il meno possibile va già a farsi benedire. Secondo pensiero: nel mio bagaglio da Ryanair non era prevista né la pioggia né tanto meno il freddo, ma poco male, quella sarà l’unica acqua piovuta dal cielo vista in tutta la settimana e per il freddo, chevvelodicoafare a parlare con gli ungheresi, questo è stato l’agosto più caldo di sempre e non faccio fatica a crederlo.

Dopo la “falsa partenza” la marcia parte con ancora un po’ di pioggia che da lì a poco terminerà. Dal vivo, vedendoli marciare, ti capaciti ancor meno di quanto sia impossibile che non si spezzino in due le ginocchia dopo cotanto marciare: su tutti il keniano Gathimba, veramente piegato più di una torre di Pisa e dal passo troppo violento per pensare possibile possa durare 20 km…ed invece…

Per noi arriva la prima delusione con Stano stranamente mai nel vivo della corsa. Salva parzialmente la mattinata Fortunato con una bella rimonta finale fino all’undicesimo posto (2 posizioni e 27 secondi dopo il keniano di cui sopra).

Gara contraddistinta da una fuga veemente del giapponese Ikeda che vedeva bene di scoppiare per poi arrivare 15esimo proprio mentre mi stavo chiedendo con Federico (ragazzo romano, che vive a Budapest, con nonna di San Severino Marche) se nella marcia certi distacchi siano recuperabili.

La vittoria dello spagnolo Martin apre quindi questi mondiali e da lì a pochi giorni assumerà un valore ancor più significativo considerando che i 4 ori della marcia saranno tutti spagnoli (2 Martin e 2 Perez).

Trasferimento allo stadio e dell’impatto che questo ha avuto su di me vi ho già detto, una cosa però ho omesso prima: al momento dell’arrivo nel primo giorno il mio posto era occupato

…mi sono seduto sul posto affianco, i suoi bicipiti statunitensi mi hanno convinto che forse era lui nella ragione ed io nel torto. Ho imparato in fretta che quei posti erano ambiti da allenatori e staff vari di lanciatori e lanciatrici per la loro posizione così strategica in ottica pedana con gabbia (e mi hanno permesso anche di conoscere uno dei personaggi che poi sarà protagonista di questo diario).

Dal punto di vista delle gare, il focus se lo meritano due avvenimenti così simili tra loro e così assurdi da voler subito mettere in chiaro che “witness the wonder”, “testimoniare la meraviglia” sia uno slogan più che azzeccato per le gare di questa settimana: nel giro di pochi minuti e di pochi metri una dall’altra due olandesi cadono a poche decine di metri dall’arrivo con una medaglia (se non d’oro, almeno di argento) ormai certa e non sono due olandesi qualsiasi : Femke Bol (probabilmente l’atleta copertina di questo mondiale in fase di preview) e Sifan Hassan (senza dubbio una delle atlete più solari e sorridenti vista fuori dalla gara, tra interviste, podi e disponibilità con i tifosi).

La gara “persa” da Bol, vede registrare anche il record mondiale. Certo è un record mondiale abbastanza particolare considerando che le staffette già si corrono poco, la mista per di più si corre da ancor meno tempo, ma visto che sarà l’unico WR registrato (…grazie comunque Mondo Duplantis per il tentativo, spoiler) ce lo teniamo stretto e ne condividiamo anche la foto (almeno del display):

Dopo la delusione di Stano, arriva in serata comunque la prima medaglia italiana: Fabbri e Weir sono due pesisti che con i loro 21 metri abbastanza costanti valgono tranquillamente una top 8 mondiale. Certo per il podio sarebbe servito un over 22 che Weir ha raggiunto una sola volta in carriera e Fabbri nemmeno quella…almeno fino a quel momento.

Ecco il peso tra tutte le competizioni è quello veramente più penalizzato dalla mia postazione, bisogna affidarsi totalmente agli schermi, quindi non so essere più partecipato in questo resoconto (con Crouser che è andato a pochi centimetri dal suo stesso record del mondo), mi sono dovuto accontentare del selfie con il terzo classificato, Joe Kovacs, incontrato per caso camminando all’interno dello stadio la mattina seguente:

Day 2 (domenica 20):

Il secondo giorno inizia all’alba con la sveglia per essere in tempo alla partenza della marcia 20 km femminile. Al solito, quando ci sono di mezzo troppo i giudici, ci sono sempre tante critiche (“è colpa dell’arbitro” sport nazionale non a caso), la marcia non fa eccezione, anzi, essendo quasi l’unica disciplina dell’atletica in cui ciò avviene, tutto è ancora più amplificata. Io non sono esperto e dal vivo effettivamente alcune cose si notano di più, ma non starò a farvi il pippotto sul fatto che gli altri corrono e noi marciamo.

Però io la marcia non la toglierei, ancor di meno ora che, vivendola dal vivo, hai la fortuna sostanzialmente di veder passare gli atleti 40 volte (il circuito della marcia 20 km è di un km e si riesce a vederli sia all’andata che al ritorno).

Questa 20 km poi ci ha regalato una storia di ritorno e di rivincita che non può che conquistare queste righe, con la nostra Antonella Palmisano che torna sui suoi livelli dopo le tante difficoltà incontrate successive all’oro olimpico di Tokyo, fino a pensare di abbandonare la carriera sportiva. Il suo sorriso nel prendere la bandiera a 300 metri dall’arrivo è una delle tante cose belle che mi ha regalato questa esperienza.

Come difficilmente mi dimenticherò del respiro a mo’ di locomotiva durato per tutte la gara della boliviana Angel Melania Castro Chirivechz, penultima al traguardo:

La mattina allo stadio ci regala due storie. La prima riguarda le qualificazioni del salto in alto e la noia che attanaglia soprattutto i big della competizione, “costretti” ad interminabili attese tra un loro salto e l’altro tra misure bypassate, errori altrui, gruppi infiniti, corse in pista che ritardano l’avanzare delle operazioni. Poi c’è chi tra un salto e l’altro si fa un pisolino (Barshim sei tu?!) e chi invece passa da una panchina all’altra, da un gruppo all’altro a chiacchierare con chiunque, manco fosse lo sposo che va a fare i brindisi per ogni tavolo degli invitati (Tamberi sei tu!). Che poi Gimbo ha anche rischiato di uscire, ma questa è un’altra storia…

Delle qualificazioni dell’alto ci teniamo la gioia esplosiva di Fassinotti e passiamo all’altra storia, quella dell’allenatore di discobole varie, John Dagata, sempre per la questione della posizione strategica della mia posizione allo stadio.

Dagata, di chiare origini italiane come ci tiene a farci sapere (“mio padre è siciliano”), allena la cinese Wang, “ma anche altre atlete USA”, ma non lo fa per soldi, lo fa “per amore dello sport” (e noi ci crediamo John…). Sull’ultimo lancio della Wang prima impazzisce di gioia per la buona misura raggiunta, poi alla comparsa della misura sul display impazzisce di rabbia: per nulla convinto di quanto mostrato (50 e qualcosa) inizia a sbracciarsi verso la sua atleta per convincerla ad andare dal giudice e contestare la misurazione (“è 60 non 50, CONTEST CONTEST”)

Che dire, aveva ragione John, alla fine esce la misura corretta: 58,78 che non basta per la qualificazione alla finale, ma John, Wang e tutto lo staff cinese sembrano comunque soddisfatti (il personale dell’atleta era di 59,09). Un lieto fine, ma John (spoiler…) tornerà su queste righe a breve per un lieto fine ancor più lieto…

Tra la sessione mattutina e quella serale del day 2 ci sono poche ore, per lo più passate a rincorrere un’ombra dello stadio nel parco antistante alla struttura nella zona della medal plaza. Al di là del poco tempo che sconsiglia di allontanarsi molto, c’è la voglia di entrare il prima possibile, a cancelli riaperti, per poter assistere alla finale del lungo stavolta non nel mio posto, ma in posti in piedi, non numerati, su una balaustra in cima al primo “anello”, in completo asse con la pedana del lungo, perché è il pomeriggio di Larissa Iapichino (e delle semifinali e finale dei 100 metri maschili, praticamente in asse con il lungo, seppur sul rettilineo opposto).

Il posto riesco a prenderlo e da lì a poco mi rendo conto che ci sarà un avversario ostico contro cui combattere: il sole che sarà compagno fastidioso per tutto il pomeriggio.

La gara non è andata come si sperava, un bronzo era raggiungibile, ma ne è valsa comunque la pena per veder volare Vuleta fino a 7,14. Nel mentre è arrivato il record personale di Pietro Arese (assieme a Simone Barontini, uno dei miei preferiti del mezzofondo italiano) che non sarà valso la finale ma ha dato comunque parecchia soddisfazione ed anche un finale palpitante dell’eptathlon femminile.

Nel mezzo ovviamente le fasi conclusive del “torneo” dei 100 metri. Jacobs non ha conquistato la finale ma onestamente sono stati bei segnali di risveglio. Per la finale sarebbe servito andare sotto i 10″, cosa che a questo Marcell al momento sapevamo di non poter chiedere. 10″05 sono comunque un buon viatico per finire bene il 2023 e sperare in un 2024 lontano da acciacchi e stop vari. D’altronde il tempo di vittoria di Lyles (9″83) e il disastro di Kerley (out anche lui in semifinale) ci fa capire che basterebbe il già fatto per tornare su un podio. E non va dimenticato quanto questa frase che ora ci sembra così normale, di normale non ha proprio nulla. Forza Marcello!

Dal punto di vista personale, sono curioso di capire cosa stesse succedendo affianco a me durante la finale, c’era un atleta americano (non sono riuscito a capire chi) che veniva ripreso durante la gara a mo’ di live reaction per un documentario, forse quando su Netflix uscirà quello che dovrebbe uscire riguardo i 100 metri di questo mondiale ne scoprirò di più.

Due righe la merita anche la finale del martello, anche perché mi permette di sottolineare la partecipazione ostinata e quasi maniacale del tifo ungherese per ognuno dei propri atleti impegnati in qualsiasi specialità: ad ogni presentazione, ad ogni salto, lancio, scatto, partenza di uno dei loro connazionali lo stadio esplodeva in un boato, benché in pratica fossimo davanti a quello che poi verosimilmente sarebbe arrivato se non ultimo quanto meno nelle ultime posizioni della batteria/qualificazione.

L’Ungheria è molto indietro dal punto di vista mondiale, non è solo una questione di medaglie (il bronzo di cui fra poco vi parlerò), ma in generale hanno raccolto solo un altro piazzamento nei primi 8 oltre alla medaglia vinta. Sarà comunque interessante capire se e come l’organizzazione di questo evento mondiale e la costruzione di uno stadio dedicato (che dopo l’evento vero ridotto in fatto di capienza) possa in qualche modo dare una spinta generale al movimento.

Ma veniamo alla medaglia: Halasz, grazie al suo primo lancio, ha flirtato con l’oro in una competizione in cui comunque partiva tra i favoriti, poi nella penultima serie è stato superato sia dal polacco Nowicki che dal canadese Katzberg (un boscaiolo fatto e finito pronto ad abbattere tronchi a mani nude probabilmente) e il sogno di un’intera nazione è parzialmente svanito. Per la dedizione in cui hanno messo nel tifare chiunque forse l’avrebbero meritato.

Day 3 (lunedì 21):

Mi ricollego al finire del day 2 e candidamente ammetto: disco e martello non sono tra le discipline che più esaltano, ma dopo questa settimana dovrei dire “non erano”.

Ho iniziato con l’odiare quella maledetta gabbia che dal mio posto impallava i maxischermi del lato opposto e parte della curva, ma poi con il seguirsi dei giorni e delle gare, confesso che quell’ammasso di pali e reti ha generato una sorta di amore ed odio che poi è esploso in tutto il suo splendore negli ultimi 2 lanci della gara del disco di lunedì sera: prima Ceh che si prendeva il primo posto al suo ultimo lancio di serata, penultimo della gara e poi Stahl, che mandava i titoli di coda così:

Con una presenza scenica, un controllo della situazione che nemmeno in una sceneggiatura di Hollywood. Da divino a divo in pochi passi:

A proposito di storia da film o quanto meno da documentario: quante vite ha vissuto Sha’Carri Richardson (lei che ha solo 23 anni) fino al 10,65 di lunedì sera? 10,65 che è anche l’11esima prestazione all-time, nel senso che nel mondo solo altre 10 volte si è fatto di meglio (3 volte Florence Griffith-Joyner, 3 Elaine Thompson-Herah, 1 volta Carmelita Jeter e 3 volte Shelly-Ann Fraser-Pryce). Fraser-Pryce che con il suo solito sorriso sul podio ha impreziosito ancora di più, se ci fosse bisogno, la vittoria della statunitense.

Considerando cosa poi successo nei 200 metri, diciamo che mai come questa volta i record di Griffith-Joyner sembra siano finalmente pronti per essere battuti 35 anni dopo.

Il day 3 poi è finito a notte fonda, con il ricorso della federazione italiana per la squalifica di Warholm, reo di essere passato di lato su un ostacolo. Ricorso di lì a poco respinto: Warholm riesce a rompere le regole tanto quanto riesce a rompere gli ostacoli:

Nel solito ritorno a piedi dallo stadio arriva la buonanotte con una locandina in una fermata dell’autobus:

…il day 4 non sarà un giorno banale

Day 4 (martedì 22):

Il ritorno di Dagata: al day 2 l’avevamo conosciuto come allenatore di Wang, oggi è in veste di coach dell’hawaiana Laulauga Tausaga. Ecco una cosa che avevo sempre sottovalutato finora: lo staff degli atleti non è sempre lo stesso e sostanzialmente ci sono allenatori che esultano per le proprie atlete ma in pratica non si curano minimanente dei risultati raggiunti da atlete benché connazionali (ogni riferimento allo staff dell’altra statunitense, ben più attesa e favorita, Valarie Allman è voluto).

Ma torniamo a Dagata e a Tausaga: il terzo giro di lanci lo inizia da ultima, 12esima ed ha bisogno di migliorare il suo record personale di oltre un metro per entrare nelle prime 8 e regalarsi altri tre lanci: lo fa.

Sarebbe già “oro” così per lei, ma al penultimo lancio (il quinto) si migliora di altri incredibili 4 metri per sconvolgere tutti (a partire dallo staff della Allman) e balzare al primo posto della finale mondiale del disco femminile.

A proposito di balzi:

Sì, quello che le salta in braccio è proprio lui, John Dagata, che da moderno Pippo Franco aveva nel frattempo svestito i panni della Cina e vestito quelli degli USA, per godersi questo incredibile oro mondiale, tra i più sorprendenti di tutta la competizione (se non il più sorprendente).

E, metaforicamente, anche noi siamo saltati in campo assieme a coach Dagata, ormai membro onorario di QCP.

Allman chiaramente non l’ha presa bene, vatti a fidare delle connazionali: e il suo stato d’animo sarà ben visibile il giorno dopo, sul podio delle premiazioni, quando passerà ad ascoltare l’inno americano ad occhi chiusi ed a profondi sospiri, per poi sfoderare comunque uno dei più bei sorrisi di questo mondiale.

A proposito di sorrisi quello di Ayomide Folorunso non esce dalla top 3 ed anche grazie a quel sorriso sintomo di un carattere sempre positivo e solare che finalmente, in questi mondiali, Ayo ha abbattuto il muro dei 54″ ed in barba ad una semifinale molto complicata è riuscita comunque ad entrare in finale, ovvero nelle prime 8 al mondo: una crescita costante di un’atleta che seguiamo da sempre, ma che ha solo 26 anni e che ci riempie immensamente di gioia. Nonostante le medaglie vinte anche da altri atleti, è lei (almeno per me) la ragazza che merita la copertina di questa spedizione italiana che è andata decisamente bene e che ci lascia ben sperare per il prossimo anno olimpico.

Il day 4 però non è l’Italian Day, è proprio l’Ancona Day ed inizia con Simone Barontini e le ottime sensazioni che lascia in totale controllo per tutta la gara con accesso alle semifinali. Poco prima Tecuceanu aveva fatto valere il suo finale. Insomma ci sono davvero buone vibrazioni nella notte di Gimbo.

È inutile che vi stia a raccontare che ha vinto l’oro, lo sapete già.

Non capiremo mai dove finisce il personaggio (artefatto o meno) e dove inizia lo straordinario agonista e nemmeno quanto l’agonista abbia bisogno di quel personaggio. Quel che è certo è che questo suo agonismo, questa sua capacità di sentire la gara e i suoi momenti, gli sono valsi i due ori più importanti che un atleta possa vincere: quello olimpico e quello mondiale.

In entrambe quelle due gare (Tokyo 2020 e Budapest 2023) forse non era il saltatore più forte (come Woo non abbia vinto non dico l’oro, ma nemmeno una medaglia resta per me inspiegabile in questi mondiali), ma è stato quello che più degli altri ha capito la gara, ha sentito i momenti della stessa ed ha trovato le forze per andare a prendersela con quel 2,36 che si era capito già se fosse stato fatto al primo tentativo sarebbe valso la vittoria.

In questo salto in alto, in cui le differenze alla fine sono così minime (e per una volta c’è stata una sequenza “umana” nella progressione delle misure), non è decisivo quanto salti, ma quando ed in questo Tamberi prende Woo (per restare in tema), gli mette il grembiule, gli prepara quaderni e astuccio e lo porta a scuola.

Resta un personaggio che può anche non piacere (a me onestamente non piace, lo trovo sguaiato ed eccessivo in qualsiasi cosa faccia, gusti personali, come invece per il 90% del pubblico straniero è un’icona di questo sport), però arriva un punto in cui bisogna riconoscergli il talento ed una capacità di farsi trovare pronto nei momenti più importanti, che gli fa scrivere un palmares che pochi nella storia dell’atletica italiana possono vantare.

E poi dai, uno che salta come Harrison non poteva vincere! Ne facciamo proprio un fatto estetico!

Unico appunto che mi sento di fargli, un dettaglio: per uno attento come lui alle “belle scenografie” onestamente pensavo che quel 2,40 che ha fatto piazzare a gara finita per spendere il suo ultimo salto, lo tentasse. A Tokyo aveva portato il gesso in pedana, qua c’era da tentare la stessa misura che gli costò quell’infortunio (e quel gesso) a Montecarlo prima di Rio 2016, un modo per chiudere un grandissimo cerchio.

Quell’infortunio probabilmente ha fatto sparire il Tamberi che vince le gare saltando un centimetro più dell’avversario, ma ha forgiato quello che vive più la pedana che l’asticella e si infila tra le pieghe emotive e mentali della gara, capendo meglio i momenti e grazie anche a questo vince gli ori.

Ora qui dovrei inserire un capitolo intero su Barshim (e sarei schifosamente di parte), ma mi limiterò a dire che a festeggiamenti ormai finiti con lo stadio quasi vuoto, lui che salta il fossato e viene ad abbracciare la mamma che era giusto due file dietro di me è uno dei momenti più emozionanti di questa settimana. Ed il figlioletto ne è l’MVP (in foto madre, moglie e figlio…i Barshim):

Day 5 (mercoledì 23):

L’esaltazione della sera prima è ancora in circolo quando Tortu di prima mattina ci riporta subito sulla Terra: Filippo, perché mi fai questo?! 20″46 e fuori subito al primo turno, uno che circa un mese fa aveva corso 20″14 e pareva in rampa di lancio per attaccare il muro dei 20″. Spoiler: il giorno dopo scopriremo sarebbe bastato 20″21 per andare in finale, non serviva nemmeno migliorarsi per essere nei primi 8 al mondo.

Ma non è l’unico ad uscire deluso (e con voglia di rivalsa) da questa quinta giornata: Ingebrigtsen può perdere? Sì e può anche rosicare perché nel darla su nel finale rischia anche l’argento, con l’odiato connazionale Nordas battuto di soli 3 centesimi. Onestamente questa non l’ho proprio vista arrivare. Anzi se proprio avessi avuto un fiorino (ungherese: 0,0026 euro) da giocarmi, me lo sarei giocato nella “caduta” dell’altro norvegese (Karsten Warholm) perché mi sembrava avere degli avversari un filo più in forma e carichi.

Ecco a proposito di gente della stessa nazione allenata da staff diversi: il caso degli Ingebrigtsen venuto alla ribalta (almeno per me) durante questi mondiali, porta il tutto su livelli ancora più alti, perché lo staff del rivale di Jakob è guidato nientepopodimenoche dal padre dei fratelli Ingebrigtsen e tra le due fazioni c’è odio vero e proprio, con tanti di dispetti organizzativi che sfiorano la “mafietta” interna (e che comunque hanno portato poi alla rivincita di Jakob, campione mondiale dei 5000 metri pochi giorni dopo).

Appunto per il futuro: Laros, classe 2005, decimo nella finale dei 1500 e record nazionale neerlandese. Lo stiamo vedendo partire, chissà dove arriverà…

Highlight di giornata: la lettone Caune che corre i 5000 come se fosse una tappa mossa da ultima settimana di un Grande Giro, quando la fuga ha davvero chance di arrivare. Lei in qualche modo arriva (non vince la tappa, ma si qualifica per la finale*). E dalla regia ci dicono che poche settimane fa aveva fatto la stessa cosa: chiamatela De Gendt!

*Finale conquistata, ma non “giocata”, evidentemente quella tenuta di gara non si addice ad una situazione in cui si prevedono dei turni piuttosto ravvicinati come in un mondiale.

Asta femminile gara più bella della serata che finisce con “can we have two golds?” E vissero felici e contente. Poco prima però Moon e Kennedy avevano “rischiato” di far saltar tutto con un 4,90 saltato da entrambe all’ultimo tentativo che, grazie ad una gabola da buon italiano e alla collaborazione del duo Angelo e Claudio di cui vi ho già accennato in apertura, sono riuscito a vedere da un posto diverso (e più comodo per la pedana dell’asta femminile):

Nel mezzo della giornata hanno premiato Tamberi che ha trasformato, ovviamente da par suo, il tutto in un grande concerto rock: è mancato solo il tuffo tra la gente, ma non c’è andato lontano.

Due parole sulla “medal plaza” che ormai sta spopolando da qualche competizione a questa parte: probabilmente per non “intralciare” le schedule delle serate non si prevedono più le cerimonie di consegne medaglie dentro lo stadio tra una gara e l’altra.

Pro e contro. Iniziamo con i contro: intanto era una cosa poco “compresa” perché nei primi giorni c’era veramente pochissima gente ad assistere agli inni e anche quando poi si è capito come funzionasse lo spazio non era per niente grande per accogliere tutti anche chi arrivava all’ultimo. Pro: comunque li vedi da vicino, e se sei tra i 30/40 che stanno nelle primissime file vicino è un under statement. Cosa che non ti può succedere se fossero rimasti dentro lo stadio.

Poi noi tra Gimbo e 4×100 abbiamo comunque trovato il modo di renderlo abbastanza personale come premiazione (indubbiamente i più caldi), ma questa è un’altra storia.

Day 6 (giovedì 24):

Torniamo in strada con questo nuovo format della marcia 35 km corsa contemporaneamente da uomini e donne: Ecco, la marcia 35km è solo una 20km che non ce l’ha fatta, capisco anche qui l’intento di avere una distanza unica (da poter far correre anche insieme, accorciando gli eventi in strada), ma la 50 km aveva un senso diverso dalla 20, qua (al di là del fatto che l’hanno vinta gli stessi che hanno vinto la 20) sembra davvero un surrogato della versione più corta con dinamiche di corsa abbastanza simili. A questo ci aggiungiamo che tra le donne ci sono stati distacchi abissali: insomma, siamo sicuri che sia una competizione con il field adeguato?

Dal day 6 mi porto via due diapositive “private” a loro modo significative: qualche ora dopo la marcia nel vagone della metro che mi porta al riposo pomeridiano incrocio tutto il “fan club” di Stano, Massimo incluso, appena uscito da Burger King, le gioie della vita.

L’altro invece è l’abbraccio di Simone Barontini con suo padre, pochi minuti dopo la fine della sua semifinale, pochi seggiolini affianco a me. Una semifinale tanto buona (record personale) quanto sfortunata (finale mancata di pochi centesimi). Nell’abbraccio con il padre con tanto di pianto a dirotto credo ci sia tutto quello che è lo sport, le fatiche fatte, la soddisfazione per i miglioramenti, la sensazione comunque di essere arrivati ad un passo dai primi 8 al mondo: davvero commovente.

Il mondiale come detto in apertura è un percorso, è bello vivere i vari turni e come si dipana la storia tra una batteria e l’altra. I 100 ostacoli femminili sono l’esemplificazione pratica di questo concetto: Kendra Harrison trova sempre il modo di fare contro prestazioni e Budapest 2023 non ha fatto eccezione: 12″24, uno straordinario 12″24 al primo turno (ovviamente la più veloce, la seconda ferma a 12″44). 12″33 in semifinale (anche qua la più veloce del lotto, con la seconda fermatasi a 12″41). Ed in finale? 12″46 che non basta né per l’oro (12″43), né per l’argento (12″44). Un percorso, una storia, al contrario.

Questo è stato il mondiale dei sorpassi all’ultimo e tra questi non possiamo non menzionare quello di Tentoglou che ormai è un habitué del gesto. A Tokyo all’ultimo salto aveva fatto egual misura del primo (8,41) poi battuto grazie alla seconda misura. Qua la situazione prima dell’ultimo salto era egual misura (8,50) con il giamaicano Pinnock e secondo posto dovuto alla seconda misura più corta di un centimetro (8,40 vs 8,39). Di certo non misure di livello assoluto (ma ormai ci siamo abituati da un po’), ma di un equilibrio pazzesco.

Poi c’è stato l’ultimo salto: 8,52 e di nuovo oro. Drama!

Piccola curiosità sui salti (lungo e triplo) giamaicani: Pinnock in qualificazione aveva fatto 8,54, gli sarebbe valso l’oro, si è dovuto “accontentare” dell’argento nel modo diabolico in cui descritto sopra. Al suo connazionale Hibbert, nel salto triplo, è andata anche peggio: 17,70 in qualificazione per poi infortunarsi al primo salto della finale, vinta da Zango con 17,64.

Day 7 (venerdì 25):

Lo strano mondo dei decatleti/eptatlete: tanto è dimenticato dalla tv, tanto è invece seguito con partecipazione e interesse allo stadio. Vederli destreggiarsi in attività così diverse tra loro ad un ritmo incessante, cercando ognuno i propri limiti è veramente qualcosa di magico e diverso rispetto alle altre discipline. Ad esempio, in una settimana così densa di avvenimenti e cose che porterò sempre con me, uno spazio ci sarà sempre nel modo in cui il decatleta tedesco Eitel faceva il salto in alto, con un colpo di reni degno del miglior ciclista.

Sicuramente la multidisciplina non arriva così facilmente, per via della conversione in punti e ha bisogno di essere seguita con estrema attenzione per essere compresa nel suo percorso, cosa che in TV non succede praticamente mai.

Io avevo deciso di tifare per l’atleta di Grenada Victor, poi finito sul podio (in una gara anche con tanti ritiri), mi aveva convinto il suo staff:

Il day 7 è stato comunque il giorno incentrato principalmente sui 200 metri. Come già accennato, Il record dei 200 metri femminili ha vacillato. Il 21″41 di Shericka Jackson è una prestazione di portata assoluta, non basta dire che è a 7 centesimo dal record del mondo, ma è la seconda prestazione mondiale di sempre e unica donna ad andare almeno due volte sotto i 21″50 (la prima volta ai mondiali di Eugene dell’anno scorso).

Ha resistito quel record mondiale ed ha resistito anche il record europeo dei 200 metri maschili. Perso inopportunamente Tortu nel primo turno, non mi restava che “gufare” il britannico Hughes che già durante l’anno si era fermato a 19″73, un solo centesimo più lento di quel 19″72 di Pietro Mennea tutt’ora limite per un europeo.

L’opera di gufaggio (oserei determinante…) ha portato i suoi frutti: Hughes ha corso la finale in 20″02 (facendo peraltro peggio del primo turno dove aveva fermato il tempo a 19″99) e non è riuscito nemmeno a salire sul podio (dove sono saliti Lyles, che ha completato facilmente la doppietta, Knighton, classe 2004, e Tebogo, doppietta di medaglie individuali anche per lui).

Prima o poi il grande Pietro cadrà, ma ancora nessun rappresentante del vecchio continente ci è riuscito. Finché dura, ce lo teniamo stretto.

Concludiamo il terzultimo giorno con il kebab fuori dallo stadio, in compagnia di Maria Vicente, triplista spagnola, ed i suoi amici (piuttosto rumorosi):

Day 8 (sabato 26):

Per quanto riguarda la maratona femminile al di là della “sconfitta” delle etiopi che vedono sfumare il podio completamente loro a pochi chilometri dalla fine o della buona prova dell’italiana Giovanna Epis, in crescendo nel finale, terza europea ad un passo dalla top 10, voglio parlarvi di Chun-Yu Tsao, cinese di Taipei, che mette subito le cose in chiaro passando staccata rispetto al gruppo già dopo nemmeno un km:

Da quel momento in avanti ha corso i suoi 42195 metri in totale solitaria, accompagnata solo dall’uomo in bicicletta responsabile di chiudere la corsa. Passaggio dopo passaggio il suo distacco non dico dalla prima (che ha tagliato il traguardo quando lei doveva percorrere ancora 10 km circa), ma anche dalla penultima sembrava insormontabile.

Giusto per avere un’ordine di grandezza, alla fine di tutto è arrivata al traguardo con 31’10” di ritardo rispetto alla vincitrice, 8’04” rispetto alla penultima. Per dire nei 8 minuti precedenti alla penultima ne sono passate 17 al traguardo. Storie tipiche di mondiali (o olimpiadi) e comunque ha battuto le 13 che si sono ritirate, lei no, ostinata e perseverante è arrivata al traguardo, no matter what:

Un popolo di santi, di poeti e di…staffettisti. L’Italia è anche questo e ne è la riprova la giornata di sabato, dove oltre alle due staffette veloci impegnati nelle finali conquistate il giorno precedente, scendevano in campo le 4×400 allo stesso modo “vittoriose” di un accesso alla finale, con tanto di record nazionale per quel che riguarda le donne, finite per giunta terze (sarebbero comunque entrate con i tempi di ripescaggio) grazie ad un cambio fatto fuori settore da parte delle americane. USA regala sempre “gioie” nelle staffette: incredibile.

Poi ci sono state le staffette veloci e qua si è goduto: le ragazze (Dosso, Kaddari, Bongiorni, Pavese) hanno fatto più del possibile, rimanendo ai piedi del podio battute semplicemente da Giamaica, USA e Gran Bretagna.

I ragazzi, beh i ragazzi hanno scritto un’altra pagina memorabile di questo periodo d’oro della velocità italiana: Rigali, Jacobs, Patta e Tortu hanno conquistato un argento dietro agli imprendibili Stati Uniti, con l’ennesima ultima frazione di Filippo che “ao’ io non so cosa fanno, Tortu andava come Lyles oggi” (cit. di Stefanone Tilli, beccato a fine serata in uscita dalla cabina di commento)

Quella sera però c’è stato un ragazzino forse più contento di me per l’argento dei nostri eroi, lui:

Che s’è portato a casa le scarpe autografate da Kerley.

Tornando ai miei posti, devo dire che l’organizzazione aveva fatto un bellissimo gesto nei miei confronti, ovvero spostare, solo per la finale maschile, la pedana dell’asta sulle “mattonelle” di solito usate dal salto in lungo/triplo, un gesto che sostanzialmente ha reso “premium” il mio seggiolino per quella che probabilmente era la prestazione individuale più attesa di questi mondiali, quella di Armand Mondo Duplantis.

Per prima cosa bisogna però dire grazie soprattutto ad Obiena che l’ha resa una gara ancor più avvincente, perché nell’attesa che avvenissero i 3 tentativi per il record del mondo, abbiamo visto comunque un altro atleta superare i 6 metri. E altri due (Marshall e Nilsen) tentarli.

Obiena poi s’è dovuto arrendere a colpi di salti sempre più incredibili nella loro semplicità di Duplantis e il record del mondo non è arrivato, ma comunque conserverò con cura i tre video dei tre tentativi a 6,23. La ciambella non è riuscita con il buco, ma è pur sempre una buona ciambella.

Day 9 (domenica 27):

In “medal plaza” c’era una regola: gli atleti nell’entrare in camera di premiazione dovevano lasciare i loro cellulari dentro a dei sacchettini per poi riprenderli all’uscita. Una regola da rispettare, non più di una.

I nostri (il telefono era di Marcell e il fotografo l’ha fatto Filippo) avevano iniziato a confabulare già ancor prima della consegna delle medaglie guardando la folla e facendo riferimento al “lo facciamo anche se non si può”, “guarda quanta gente”, “che ce frega” e già lì s’era capito che “stava per succedere una cosa”.

Ma ancor più bello era stato il grido “ITALIA ITALIA” quando sono saliti sul palco, con le facce degli americani visibilmente “stranite” (poi finito il nostro coro c’avevano provato pure gli statunitensi con il classico “iu-ess-ei”…decisamente in tono minore).

Dalle premiazioni dell’ultimo giorno mi porto via anche il decatleta campione del mondo, Lepage che dopo aver ricevuto la medaglia fa come per andare via, fermato giusto dal suo connazionale (Warner, secondo con lui sul podio) che gli ricorda che prima dovrebbero ascoltare almeno il loro inno (inno che peraltro è tra quelli che più mi emoziona, non so perché).

Le gare dell’ultimo giorno hanno tutte quel retrogusto di amaro, un po’ da “l’estate sta finendo, un mondiale se ne va” e ho già scritto troppo in questo diario per approfittare ancora della vostra pazienza.

Del valore simbolico della vittoria dell’ucraina Mahuchikh ho già detto in apertura, mi dispiace che l’ultima gara in pista degli italiani, la 4×400 femminile, non abbia visto come ultima staffettista Folorunso, sarebbe stato bello, significativamente bello. Ma diciamo che quella 4×400 ci ha regalato l’ultima meraviglia cui siamo stati testimoni, in un mondiale che era iniziato con Femke Bol che cadeva a pochi metri dal traguardo e che si conclude con la stessa Bol che vola gli ultimi 50 metri come se fosse su una moto:

Fine corsa:

È stata una settimana molto intensa, fatta di piccole/grandi storie che si incrociavano con la mia/nostra vita da tifosi, spettatori, appassionati. Intanto voglio ringraziare Angelo e Claudio, due ravennati, con cui ho condiviso tutte le sessioni confrontandoci su sensazioni, avvisandoci su cosa guardare per non perdere un lancio di tizio, piuttosto che un salto di caio, cercando di capire tempi di ripescaggio e situazioni varie.

Hanno reso l’esperienza ancora più piacevole e magari avremo modo di ribeccarci agli Europei di Roma.

Quando tutto sembrava finito poi c’è stata l’occasione da cogliere al volo: un paio di ragazze inglesi hanno scavalcato il muretto che divideva gli spalti dalla pista, affianco a me un altro ragazzo italiano mi guarda e mi fa “non è che la cosa sta un po’ degenerando“, io l’ho guardato un po’ così:

E sono andato a prendermi i miei 5 minuti di “gloria” a passeggio per una pista che aveva appena terminato di ospitare un mondiale di atletica:

azazelli

Da giovane registravo su VHS tutte le finali di atletica, mondiali ed olimpiadi, poi m'hanno cancellato il record di Donovan Bailey con Beautiful e mi sono dato al download. Vivo di sport, cerco di scriverne.

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2 risposte

  1. Luca F ha detto:

    Letto in colpevole ritardo, ringrazio: i minuti spesi a leggere sono stati spesi bene.
    Purtroppo la mia indole di fare la punta ai chiodi, sempre, mi suggerisce di evidenziare (ma sottovoce, ché so per certo trattasi di lapsus) che il 19.72 di Mennea prima di Bolt l’ha battuto Michael Johnson.

    • azazelli ha detto:

      Ciao Luca e grazie per la precisazione, ho tolto quella parte non so come sono riuscito ad andare dritto su Bolt 🙂

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