Cicatrici d’oro

Scrivo storie da quando ho imparato come si tiene in mano una penna, ma non posso che impallidire al confronto della narrazione di cui è capace lo sport. Ci sono libri che riempiono migliaia di pagine nel tentativo di mostrare un frammento della complessità umana; a Federer e Nadal basta qualche scambio con due racchette e una pallina gialla.

Nel quinto set c’è ogni emozione che siamo in grado di immaginare e una mezza dozzina in più. Entrambi cadono e si rialzano, cedono alla propria hybris e poi si redimono, affrontano la paura di perdere e il terrore di vincere. Prendete l’ottavo game. Roger si è appena riconquistato il break perduto a inizio set e Rafa è piegato nel suo punto più forte, la volontà d’acciaio. Butta via due scambi, non ci prova nemmeno, è rassegnato: la leggenda del rivale lo schiaccia, gli consegnerà il servizio una seconda volta senza opporre resistenza. Poi smette di pensare e ritorna al suo tennis animalesco. Due dritti che mulinano veloci a un palmo dalla riga, una battuta potente al centro, senza guardare. Se Roger vuole vincere se la dovrà sudare; la poesia non accetta compromessi.

Prendete il nono game, l’ultimo. Federer ha fretta di chiuderla, scende a rete al primo colpo, Nadal ringrazia e lo infila. Forza tutte le prime di servizio, non vuole mettersi a scambiare con le ginocchia che gli tremano. In un modo o nell’altro guadagna il match point. Ora gli trema anche il braccio. Va a un paio di centimetri dal doppio fallo, lo salva il challenge; sì, quello che ha sempre odiato. Poi sparacchia un comodo dritto come il peggiore quarta categoria. Parità. Di nuovo la pressione addosso. Come risponderà? Con un ace, ovvio. E con un altro servizio preciso, ad aprirsi il campo, e il dritto che stavolta artiglia la linea.

Invecchiando, Federer è diventato più grande. E la dimensione della sua grandezza sta nelle sue debolezze, nella sua umanità. Se l’è conquistata perdendo. Nelle prime vittorie era un essere perfetto, impeccabile. Un’esperienza religiosa, come lo definiva David Foster Wallace, “un corpo fatto di carne e luce”. Poi gli anni e le sconfitte ne hanno scalfito la superficie. Ha dolore alla schiena e alle ginocchia, gioca peggio, ma è più forte. Come fanno in Giappone coi vasi rotti, ha versato oro nelle spaccature; ora sono le cicatrici di un vecchio eroe che non si è mai arreso. Nadal è come lui. L’ultima sfida non poteva che essere con la sua nemesi più nera.

E poi c’è tutta la bellezza del gioco nell’immagine di Roger che esulta con la faccia da bambino, e Nadal che non si rassegna alla sconfitta e tiene il broncio per tutta la premiazione. I due si rispettano, hanno imparato a stare in compagnia. Ridacchiano mentre il coreano sul palco sciorina i ringraziamenti di rito; con l’enfasi e l’inglese zoppicante che si ritrova, sembra un cattivo da fumetto che annuncia le sue mosse più temibili. Quando Federer prende il microfono, solo allora riesce a strappare un sorriso al rivale, per quanto amaro. “Il tennis è uno sport crudele”, dice. “Non esiste il pareggio. Ma se fosse possibile, stasera sarei stato felice di dividere la vittoria con Rafa”.

Il tennis l’ha inventato il diavolo, diceva Adriano Panatta. Sa essere tremendo e meraviglioso allo stesso tempo. Domenica l’abbiamo sperimentato.

Per tre ore e trentotto minuti l’ultimo atto di Federer-Nadal ci ha reso immuni al tempo. Dieci anni fa eravamo alle scuole superiori, all’università, forse in un’altra città, magari giocavamo anche noi a tennis, coltivavamo sogni più giovani. Guardavamo in tv due uomini indistruttibili che si combattevano ad armi pari, come in un film. Ma non era così. La realtà si svelava lentamente, scambio dopo scambio, e sgranavamo gli occhi; erano le cicatrici d’oro nel vaso, quelle che s’intravedevano? L’indomani saremmo andati a lavoro, non più a scuola. E niente allenamenti, il massimo del tennis che ci concederemo sarà un’oretta col collega, combattendo gli sbadigli. Poi realizzavamo, con un certo terrore: non ci sarà nessun lieto fine, nessun titolo di coda. Nessun pareggio. A uno dei due toccherà vincere.

È lo sport che racconta le sue storie migliori, e la penna di Federer è tra le più raffinate che si siano mai lette. David Foster Wallace, se fosse ancora tra noi, cosa avrebbe scritto sulla partita? Non riesco a smettere di chiedermelo.

ndr: ringraziamo Andrea, redattore anche su Playit, per aver voluto condividere sulle nostre pagine la sua riflessione su quella che è stata qualcosa di più di una semplice finale.

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