Memorie Europee – Inghilterra 1996 – Gazza

Cominciamo a raccontare gli europei. Lo facciamo in attesa della nuova edizione di Francia 2016, la prima a 24 squadre con una formula molto simile ai mondiali giocati tra il 1986 e il 1994, comprendente quindi il ripescaggio di quattro delle migliori terze e le gare degli ottavi di finale, mai apparse ad un torneo continentale. La Francia ospiterà gli Europei per la terza volta. Celebriamo il ricordo dell’era moderna, quella che possiamo raccontare, per celebrare i campioni, gli episodi, i simboli e le squadre di tre epoche. Lo facciamo soprattutto per celebrare i ricordi di tre decadi vissute sulle spalle, tra immagini, aneddoti e sogni d’un tempo. O, almeno, cerchiamo di raccontarli per come li ricordiamo. Per il resto c’è Wikipedia.

Capitolo 5 – Gazza

Gascoigne, Gazza l'istrionico

Istrionico

Estate 1996. La Juventus ha da poco vinto la Coppa dei Campioni, l’Italia è reduce dal secondo posto ai mondiali, il calcio italiano nel suo imsieme da anni domina le competizioni di club mentre la nazionale è sempre ad un passo dall’impresa che, prima o poi, si spera possa arrivare. Il clima, non solo nello sport, è di quelli leggeri, come se al mondo si respirasse qualcosa di diverso e finalmente positivo ma, forse, sono i 22 anni di età a farti vivere ogni cosa in modo speciale. Mario Cecchi Gori si aggiudica all’asta i diritti per trasmettere il campionato di calcio, si rischia la chiusura di 90° Minuto: un affronto. L’Italia ha già scordato Tangentopoli che già si rischia un nuovo scandalo. Tutto rientra, Marione non è in grado di presentare le fideiussioni necessarie, 90° Minuto è salvo, il calcio a Mamma Rai pure e, forse, qualcuno dei piani alti comincia a pensare che al fiorentino serva una raddrizzata. Il 1996 sarà l’anno delle meravigliose Olimpiadi di Atlanta, quelle scandalosamente tolte ad Atene per il centenario per volere, si dice, del main sponsor, una bibita piuttosto dolce e gasata la cui sede è… ad Atlanta.

Nello stesso anno i Sex Pistols mettono in piedi un tour mondiale che ha l’aria dell’assurdo. Di positivo c’è che Johnny Rotten palesa l’intenzione di far soldi e prendere un po’ per il culo la gente: la gente riempirà gli stadi per vederli. Prima di tutto questo, però, è il momento degli europei di calcio. Si va in Inghilterra, terra di nascita di innumerevoli sport nei quali, successivamente alla loro invenzione, gli inglesi hanno imparato a perdere troppo spessp. Le aspettative sono altissime, un gran campionato europeo è nell’aria; nella terra di Albione non fa mai troppo caldo, le partite saranno godibili e giocate sui celebri campi inglesi. Dopo l’insulsa finale giocata con 42 gradi a Pasadena, ai mondiali di due anni prima, ci si prepara ad una grande competizione. Il clima, il pubblico appassionato, i tappeti verdi degli stadi con le tribune incollate al campo senza protezioni, i politici che son tutti ladri e le mezze stagioni del tempo che fu. Euro 1996 sarà, soprattutto, la prima edizione a sedici squadre, permettendo la presenza di praticamente tutte le squadre storiche del Vecchio Continente. Sembra tutto perfetto, anche se nulla andrà come previsto. Nulla.

C’è ottimismo anche per l’Italia. Arrigo Sacchi sta deludendo il pubblico di tifosi dimostrando di essere un gran allenatore da club, in grado di gestire la squadra nella quotidianità, ma un pessimo selezionatore, un generale che ha bisogno di fedeltà più che di talento. La sua nazionale, in tre anni circa, ha giocato bene un’amichevole con l’Olanda e venti minuti contro la Bulgaria in semifinale, negli USA. Basta. Il resto è stato pessimo e Roberto Baggio, il più grande talento italiano degli ultimi vent’anni e forse più, nonché uno dei più grandi di sempre, è già stato (inspiegabilmente) accantonato. Ai mondiali americani l’Italia perde la finale col Brasile ai rigori ma la competizione è costantemente legata alle prodezze del Divin Codino, con una squadra che schiera Beppe Signori a fare il tornante a sinistra e Nicola Berti mezzapunta. Sembra una presa in giro. Gli Azzurri verranno ripescati come migliore terza ai gironi della fase finale e saranno, di lì in avanti, tenuti a galla dalle giocate di Baggio; già con la Nigeria agli ottavi (pareggio agli sgoccioli e rigore decisivo ai supplementari) è il numero dieci a togliere un bel pensiero a Sacchi. Il fantasista della Juve segnerà altre 3 volte risultando sempre decisivo: il 2-1 alla Spagna ai quarti e la doppietta alla Bulgaria in semifinale sono le sue altre firme storiche. In finale calcerà alto il quinto rigore della serie (ma il Brasile ne avrebbe avuto un altro a disposizione) decretando il quarto titolo dei Verdeoro da dedicare ad Ayrton Senna, campione scomparso il 1° maggio di quell’anno a Imola.

L’Italia stenta anche in avvio delle qualificazioni a Euro 96, dove dopo le prime tre partite ha solo quattro punti. Pareggia all’esordio in Slovenia e perde, a Palermo, la terza partita, contro una Croazia bella tosta. Dopo lo scotto iniziale la squadra comincia a girare; non a divertire, ma almeno non sbaglia più. Le vince tutte, recupera la Croazia ma non le riesce l’impresa a Spalato (1-1) e termina seconda per scontri diretti, con un bottino che parla comunque di sette vittorie, due pareggi, una sola sconfitta e venti gol segnati a fronte dei sei subiti. Forse il CT ha trovato il bandolo della matassa e nel gruppo C, alle fasi finali, c’è un girone abbordabile: la Germania è la testa di serie, poi ci sono Russia e Repubblica Ceca. Gli stadi in cui si giocherà sono Anfield Road e Old Trafford: una magia.

Gascoigne, Ieri, oggi e domani, Old Trafford: il teatro dei sogni

Ieri, oggi e domani, Old Trafford: il teatro dei sogni

Le grandi ci sono tutte. La Germania, la Spagna, la Francia, l’Olanda (che supererà nello spareggio decisivo l’Irlanda con due gol di Patrick Kluivert), la Danimarca campione in carica. I francesi tornano ad una vetrina importante dopo aver fallito clamorosamente la qualificazione a USA 94, la seconda consecutiva. Nonostante giocatori a disposizione come David Ginola, Basile Boli, Eric Cantona, Jean-Pierre Papin, i transalpini sciupano un’occasione mai vista per approdare al mondiale americano. A due partite dalla fine del girone di qualificazione ai Bleus basta un solo punto per essere ai mondiali. Affrontano Israele e Bulgaria, entrambe in casa. Contro Israele i francesi perdono 3-2 subendo due reti negli ultimi dieci minuti. Contro la Bulgaria di Hristo Stoickov, a Parigi, la beffa giunge al minuto 89: Emil Kostadinov segna il gol del 2-1 e porta la propria nazionale ai mondiali. Si fermeranno solo in semifinale, ai piedi di Roberto Baggio. In Francia, al contrario, è tutto da rifare. Liberation titola “la Francia si qualifica ai mondiali del 1998”. I Galletti affondano tra le polemiche. Inizia quindi l’era Aimé Jacquet, il quale deve preparare la squadra proprio per quei mondiali che la Francia ospiterà due anni più tardi. L’allenatore francese ammaina subito le bandiere: fuori Cantona, Ginola e Papin. Largo ai giovani, alle nuove generazioni. In quella squadra spuntanto Zinedine Zidane, Youri Djorkaeff, Bixente Lizarazu. Ci sono Didier Dechamps, Laurent Blanc, Frank Leboef a tenere saldo il passaggio tra veterani ed esordienti. È l’ossatura della squadra che realizzerà la doppietta 1998-2000. Non c’è una punta davvero fortissima in quella nazionale, che investe su Cristophe Dugarry e Patrice Loko. Altri centravanti puri, a parte Mickael Madar, Jacquet non ne convoca.

Anche l’Olanda è nel pieno di un ricambio generazionale da qualche anno e si sente forte degli innesti dei giovanissimi giocatori dell’Ajax, i quali hanno giocato due finali di Champions League consecutive negli ultimi due anni vincendone una.

La Germania sembra, invece, meno tosta di altri momenti. C’è qualche veterano ma non si intravede talento fresco da inserire in fretta. Inoltre, i tedeschi, saranno falcidiati dagli infortuni e dalle squalifiche arrivando vicinissimi al rischio di non avere sedici giocatori da portare tra campo e panchina. Lo sponsor tecnico, prima della finale, preparerà una maglia da “giocatore di movimento” per Oliver Khan, portiere di riserva.

La Croazia è la outsider più attesa. Ha una squadra di grande talento ed esordisce ad una grande competizione per la prima volta dopo la guerra dei Balcani e l’esclusione dalla Uefa di quella che fu la Jugoslavia. I croati presentano gente come Davor Suker, Robert Prosinecki, il capitano Zvominir Boban, Mario Stanic, Alen Boksic. Sono zingari del pallone, grande talento raccolto in giro per il mondo del calcio, tra grandi squadre che collezionano trofei e blasone. Due anni dopo saranno grandissimi protagonisti del mondiale francese dove arriveranno terzi spazzando via la Germania (3-0) ai quarti e andando addirittura in vantaggio in semifinale contro i padroni di casa. La ribalterà Lilian Thuram con una doppietta (15 gol in carriera di cui 2, quei 2, in nazionale) nella migliore rappresentazione simbolica di un mondiale pazzo, strano e fortunoso.

Nonostante l’abbondante menù, comunque, le attese verranno tradite. Bel calcio se ne vedrà poco e solo un paio di nazionali saranno in grado, a tratti, di entusiasmare davvero e solleticare le fantasie degli appassionati. Dopo i gironi ben cinque delle sette partite ad eliminazione diretta termineranno ai supplementari, quattro di queste ai rigori.

Restando tra i nostri confini, l’Italia parte subito fortissimo. Contro la Russia Sacchi schiera titolare Pierluigi Casiraghi che timbra due volte e ci regala i primi tre punti. Cosa importante, però, è il gioco. La nazionale del tecnico di Fusignano gioca un’ottima partita, fa girare il pallone, corre, crea occasioni, in due parole: è quadrata. Una delle migliori prestazioni dell’era Sacchi e, in generale, di tutto l’europeo. Ma l’Arrigo furioso, si sa, ama sorprendere. Ama dimostrare quanto il modulo (il suo modulo) valga più di qualunque calciatore, di qualunque talento. È lui a mettere in discussione Marco van Basten al Milan venendo accompagnato alla porta dalla dirigenza rossonera con la camicia di forza. Ed è sempre lui ad illuminarci con il celebre “Colombo ha vinto più di Maradona”. Sì… vabbè. Ad ogni modo, il tecnico dei tecnici, che nell’avventura milanista aveva rispolverato, in Italia, il calcio offensivo ed esasperato il concetto di diagonale e possesso palla, decide di dimostrare l’assunto per cui Sacchi vale più dell’Undici. In tornei così brevi, si sa, partire bene è importante. Avere la bravura, e la fortuna, di azzeccare l’undici titolare al primo colpo e vederlo girare come una macchina quasi perfetta è un ottimo segnale. E viste le poche partite da giocare l’esperienza insegna che, da lì in poi, meno si cambia meglio è. Invece l’Italia entra in campo con la Repubblica Ceca completamente stravolta: cinque o sei titolari vengono cambiati e la coppia Casiraghi-Zola lascia spazio a Ravanelli-Chiesa. È un disastro. Gli Azzurri sembrano un’altra cosa. Addio palleggio, addio quadratura, addio automatismi. Nel primo tempo i Cechi fanno quello che vogliono e al 5° Pavel Nedved sigla il vantaggio. Enrico Chiesa la pareggia un quarto d’ora dopo ma Apolloni si fa espellere intorno alla mezz’ora senza nemmeno rendersi conto di dove si trovi. La Repubblica Ceca, con l’uomo in più, torna subito in vantaggio grazie a Radek Bejbl e poi controlla la partita con calma. Gioca meglio, sente il timore della nazionale azzurra e la porta a casa.

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Il pasticcio è fatto. L’Italia si ritrova a giocare subito una finale, contro la Germania a punteggio pieno e già qualificata, ma serve anche un risultato positivo nella partita tra i cechi e la Russia: non si può finire a pari punti con lo scontro diretto perso. Contro i tedeschi l’Italia è mediocre, crea poco, gioca male. Gianfranco Zola sbaglia un rigore. Finirà a reti inviolate ma a Liverpool accade l’impensabile. L’attaccante russo del Werder Brema Vladimir Besčastnykh, bomber di razza di cui è possibile pronunciare il cognome solo con un limone in bocca, segna a cinque minuti dalla fine il 3-2 per la propria squadra. È una rimonta epica, un’impresa storica, seppur inutile, per la nazionale russa. Sotto per 2-0 dopo meno di venti minuti i ragazzi di Oleg Romancev chiudono la competizione con orgoglio portando a casa tre punti ormai insperati. Tre minuti dopo, però, capita il pensabile: Vladimir Smicer pareggia. L’Italia è fuori tra le polemiche e Sacchi, in conferenza stampa, ricorda di essere pur sempre vicecampione del mondo senza che nessuno gli ricordi che non è un gran trofeo quello. Eppure a noi, al di là delle polemiche e delle critiche, tutto questo non interessa granché. Spiace, certo, ma noi si tifa Inghilterra. Sacchi non ci piace, Baggio e Vialli sono sul divano di casa, la squadra è stata comunque pessima nel complesso. Noi si tifa per i Tre Leoni.

Chiunque abbia un minimo di passione non può non provare piacere nel guardare il calcio inglese, in qualunque sua forma. Gli stadi, il pathos, la storia, gli aneddoti, i grandi club, i personaggi che lo popolano e lo hanno popolato. E quella nazionale stupenda, sempre, con le maglie bianche e i pantaloncini blu. Quella che ha sempre un rapace d’area, un paio di centrocampisti reclutati dalla SAS, un difensore in libertà vigilata, uno o due in fascia che corrono come matti. È l’Inghilterra con cui siamo cresciuti quella che, tra alti e bassi, è comunque rimasta suo malgrado impiccata ad un fallo di mano di Maradona nel 1986 e a un palo clamoroso di Chris Waddle, l’eroe di Marsiglia, all’ultimo secondo della semifinale del 1990 contro i tedeschi. Gli uomini della croce di San Giorgio onorano da ospiti una fase finale per la prima volta dopo il mondiale del 1966, vinto con il gol fantasma di Geoff Hurst in finale contro i tedeschi. Sono passati esattamente trent’anni e gli uomini di Terry Venables possono riprovarci.

Football comes home, è lo slogan del torneo; il calcio torna a casa. E i padroni di casa hanno una gran voglia di trattenersi in patria anche la coppa. La squadra è tosta, ha talento e gambe, e il pubblico lancia d’istinto il metodo intimidatorio dell’inno nazionale. Nel momento di God Save The Queen la musica viene totalmente coperta dal pubblico, tutta Wembley si gonfia i polmoni e glorifica a squarciagola il proprio Canto ed i propri atleti che accompagnano a loro volta le note dell’inno. Di quella formazione, senza magari ricordarne l’ordine e le presenze, te li ricordi praticamente tutti. Non amavo particolarmente il portiere, David Seaman, di cui non ho mai troppo apprezzato lo stile. Ma davanti a lui c’è il mondo: Tony Adams, Gareth Southgate, David Platt, il Governatore Paul Ince, Stuart Pearce (in questo caso quello ha più la faccia e l’approccio da “libertà vigilata”), i fratelli Neville. La punta è Alan Shearer, incredibile bomber che sta per passare al Newcastle United. Arriva dai Blackburn Rovers, con cui ha vinto il titolo inglese nel 1995, un’impresa non troppo lontana da quella giustamente celebrata di recente del Leicester City di Claudio Ranieri. Shearer, che ai Rovers forma una straordinaria coppia con Chris Sutton, lascerà Blackburn con 112 reti in 138 partite. È un fulmine di guerra, Alan, uomo d’area come pochi, le butta tutte dentro. Di testa di piede, di potenza, di astuzia, ciò che passa nei 16 metri lo trasforma in gol. Siamo ai suoi piedi. Siamo tranquilli.

Alan Shearer celebration

Alan Shearer celebration

E quando leggono la formazione, ogni volta, c’è anche lui. C’è l’idolo. C’è quello che vorresti sempre nella tua squadra, a prescindere da tutto, anche se si giocasse a basket. C’è Paul John, che i suoi hanno chiamato così in onore di due dei Beatles. È nato a Gateshead, una cittadina di meno di ottantamila abitanti nel nordest dell’Inghilterra. Lì ci sono nati anche Joseph Allon, ex calciatore professionista, e Andy Carroll, oggi attaccante del West Ham United. Paul John viene da lì, da una città che di tanto in tanto sforna calciatori. I suoi genitori, John e Carol, sono operai, vivono a stento tra case popolari minuscole ed instabilità. Paul John è cresciuto proprio lì, in una cittadina come tante, in una miseria diffusa nelle favole dei brutti anatroccoli che divengono cigni e ancor di più nelle tristi realtà di ogni giorno. Paul John di cognome fa Gascoigne ma il mondo non smetterà mai di chiamarlo Gazza. Tanto per inquadrare il personaggio, diciamo che quando un certo Gennaro Gattuso passerà ai Glasgow Rangers, e se lo troverà compagno di squadra, il primo scherzo di Gascoigne sarà quello di cagargli nei calzettoni. Tanto per presentarsi. Benvenuto in Scozia Ringhio.

Il nostro contatto con Gazza arriva ai mondiali del 1990 e non dà problemi di odore, per fortuna. Il centrocampista inglese è esuberante, comico e forte. Gioca col pubblico, ci parla, comunica. È polemico con arbitri e avversari, irriverente col potere precostituito, sia esso palesato da una giacchetta nera o da un borghese dirigente del pallone. Non perde mai un secondo di gioco però. Quello no. Per quanto possa sembrare assurdo il suo atteggiamento in campo, Gascoigne è sempre al centro del gioco, anche quando non fa nulla capisci che non è del tutto fuori. Centrocampista offensivo muscoloso e con fisico possente, si muove in maniera sgraziata pur avendo un dribbling impressionante; ha coraggio, forza di volontà e piedi niente male. Lo trovi a contrastare duramente l’avversario nella propria trequarti, un secondo dopo lancia un compagno a rete con un tocco illuminante, un altro attimo ed è in area a colpire di testa un cross dal fondo. Gascoigne è ovunque e, cosa fondamentale, la sua presenza è determinante. Non fa una vita da atleta, il suo atteggiamento lo rende più simile ad un hooligan che a un calciatore professionista e questo, inevitabilmente, lo rende più umano, più vero e, quindi, più amato dal pubblico. Chi non lo sopporta lo fa per la casacca che indossa ma dentro di sé invidia i tifosi avversari che possono avvalersi del talento e dell’energia del giullare dai piedi buoni.

Un uomo che emoziona e sa emozionarsi, deprimersi, piangere, come durante la semifinale Inghilterra-Germania a Italia 90, dove si becca un cartellino giallo; sa che, comunque vada a finire, salterà la partita dopo. E lui piange. In quel preciso momento, in diretta, davanti al mondo. È da quel momento che attendiamo la sua rivalsa e il 1996 è il momento giusto. L’Inghilterra ha una squadra di giocatori che sembrano usciti da un cantiere edile tanto sono rudi, ma in mezzo c’è anche tanto talento, gente che il pallone lo sa calciare; tra tutti lui è il più amato. Non conta più il passato, non contano più le casacche. C’è da portare a casa un titolo europeo.

Dopo le lacrime di Torino dobbiamo aspettare la finale di FA Cup del 1991 per rivederlo all’opera, grazie a TMC che ancora non punta a 90° minuto dimenticando fideiussioni. Si gioca Tottenham Hotspurs-Nottingham Forest. Dopo un quarto d’ora un intervento falloso da follia pura costa a Gascoigne la rottura del ginocchio sinistro. Rivedendo le immagini ti meravigli che sia lui quello infortunato e che l’altro si rialzi in piedi quasi subito. Rimarrà fuori un anno. Il Forest passerà grazie a Stuart Pearce, probabilmente già in stato di libertà vigilata, e gli Spurs sbaglieranno pure un calcio di rigore con Gary Lineker, riuscendo comunque a portare a casa la coppa.

Sarebbe poi venuta la Lazio di Cragnotti, 15 miliardi di lire di cartellino e il primo derby romano. Gazza non ha ancora segnato in Italia, gioca col 10 ed è un intoccabile, qualunque cosa faccia (o non faccia) in campo. All’Olimpico la Roma passa col principe Giannini e tiene il vantaggio fino all’ultimo giro di lancette. Beppe Signori spara una punizione da trequarti verso l’area di rigore. Gazza va in cielo, anticipa il difensore di testa e segna: primo derby, primo gol e l’esplosione sotto la curva.

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La cosa puzza di predestinato (Gattuso penserebbe ad altro), ma la parentesi alla Lazio non va benissimo. Troppi problemi fisici, soprattutto su un fisico mai troppo atletico, mai troppo allenato, nutrito da spazzatura e alcol, l’amore di sempre oltre al pallone. Nel 1995 Gazza approda ai Rangers e, pur non venendo mai abbandonato dai guai fisici, ricomincia a macinare il suo gioco e segna con più continuità. Ma è Inghilterra 1996 che può segnare davvero il suo definitivo ingresso nell’Olimpo del calcio inglese.

Gli inglesi esordiscono a rilento. Affrontano la Svizzera e si appoggiano troppo presto al gol di Alan Shearer nel primo tempo. Non chiudono la gara, provano a controllare e a pochi minuti dalla fine arriva un rigore per gli svizzeri. Kubilay Turkyilmaz pareggia. Cinque giorni dopo c’è il derby britannico contro la Scozia. Gli inglesi giocano abbastanza bene ma non riescono a segnare. La tensione aumenta, la pressione diventa paura di steccare, proprio in casa. Gli scozzesi hanno strappato un pari all’Olanda (0-0) nella prima uscita e tentano di portare il proprio match point alla terza partita contro la più abbordabile Svizzera, cosa che metterebbe in seria difficoltà l’Inghilterra che affronterà nell’ultimo match proprio i Tulipani. Al 53° Shearer la butta finalmente dentro e porta avanti i suoi. Non è finita. La Scozia prova ad affacciarsi nella metà campo dei padroni di casa. Al 76° Tony Adams entra pulitissimo su un pallone in area ma Pierluigi Pairetto fischia il rigore. Gary McAllister contro Seaman: parata. Il portiere vola dal lato giusto e, non si sa bene come, d’istinto, colpisce il pallone deviandolo. Palla in corner sugli sviluppi del quale, l’arbitro italiano, fischia fallo per gli inglesi. La regia mostra i replay del penalty. Io e un mio amico siamo in un bar di Genova e dopo il tiro dagli undici metri e un centinaio di offese all’arbitro, ordiniamo una birra. Stiamo infastidendo tutto il vicinato. Io indosso una maglia del Manchester United. Cantiamo e tifiamo. Sembriamo molto interessati all’europeo (e lo siamo) ma poco ai destini dell’Italia (vero), di cui in realtà tifiamo solo Casiraghi. E quelli che non sono stati convocati.

Mentre il mio amico appoggia e stappa le birre recuperate in tutta fretta, David Seaman calcia la punizione dalla propria area. La palla arriva a centrocampo, scambio veloce tra due inglesi e tocco per Gascoigne che arriva di gran carriera, con inserimento da dietro, praticamente dalla linea di centrocampo, nella sua versione biondo platino lanciata per l’europeo. Gazza arriva sulla palla che rimbalza una volta prima di giungere al limite dell’area: un difensore taglia sul suo angolo per chiudergli lo spazio del tiro. Gascoigne approfitta del rimbalzo del pallone e lo solleva con un sombrero sulla testa dell’avversario. La palla si alza disegnando una parabola perfetta e ricadendo tre metri più in là. Il difensore scozzese crolla a terra, sbilanciato, senza averci capito nulla. Gazza fa qualche passetto rapido in avanti e arriva sul pallone. Lo colpisce al volo e lo mette sul primo palo. L’azione è sorprendente e troppo rapida, il portiere non è pronto e non può reagire al meglio. La palla si insacca e lo stadio esplode: è un capolavoro. Il più bel gol dell’europeo del 1996. Wembley sembra uscire dallo schermo, il boato spacca le casse della TV io e il mio amico sobbalziamo urlando e rovesciando portacenere, portatovaglioli, sputacchiera, patatine, noccioline e tutto quello che c’è intorno. “Gazza!!!!” gridiamo. È un gol straordinario. È il gol di Gazza, il più bello della sua carriera. Il più importante.

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L’Inghilterra si distende. Trova l’Olanda e la spazza via: 4-1 con doppiette di Shearer e Teddy Sheringham. La Scozia batte la Svizzera 1-0 ma non basta; servirebbe almeno un’altra rete per superare i Paesi Bassi nella differenza reti ma non arriva. La Tartan Army è fuori, Orange e Inghilterra ai quarti. Ma i bianchi cominciano di nuovo a sentire quella pressione , quella paura di sciupare la grande occasione,  il timore di passare alla storia per non avercela fatta. Di non aver onorato Bobby Moore e gli eroi del ’66. L’illusione della gara con l’Olanda svanisce al volo. Ai quarti c’è la Spagna che si è qualificata a fatica a scapito di Romania e Bulgaria. La partita è dura, difficile. Si va ai supplementari. La Fifa si è da poco “inventata” il Golden Goal, trasformando i supplementari in uno spettacolo deprimente. Le squadre, già abbastanza stanche, tendono a giocare i supplementari troppo contratte, impaurite, nessuno rischia nulla di più del minimo sindacale. Si va a casa alla prima leggerezza. Ai quarti anche Francia-Olanda (0-0) va ai supplementari. Ed entrambe le semifinali. Tutte arrivano ai rigori. Nessun gol negli extra time, il Golden Goal comincia ad assomigliare ad un animale mitologico: non sai nemmeno se esista, se quella regola ci sia davvero.

L’Inghilterra si sbarazza degli spagnoli segnando tutti e quattro i rigori, l’ultimo lo mette Gazza, che gioca con il numero 8 sulle spalle. Gli iberici ne sbagliano due: è semifinale per i leoni. C’è la Germania, che ha battuto la forte Croazia per 2-1. Avvolta tra problemi fisici e assenze, la formazione teutonica non sembra in grado di poter fermare l’entusiasmo inglese. Ma i tedeschi sono lì, di nuovo, come nel 1966, come sempre. I tedeschi sono dei rompicoglioni, diciamocelo. Sono di nuovo in semifinale, la terza di fila. In mezzo ci hanno vinto un mondiale e anche se cambiano le formule, le nazioni, la geografia, loro sono lì. Come se stessero sempre a giocare alla guerra, anche col pallone. Ma Wembley è carico, Wembley è un duro fortino da espugnare, lo sa la storia, lo sanno i tedeschi. Durante l’inno la nazionale dei Tre Leoni è concentrata, sembra un plotone d’assalto pronto alla missione della vita. Al terzo minuto corner per i padroni di casa, la palla vola in area, Alan Shearer la incorna e rompe il ghiaccio. Uno a zero. La tensione passa, la Germania può essere messa da subito alle corde: gliene mettiamo tre stasera in tabella. Ma quelli sono dei rompicoglioni, lo abbiamo detto. Stefan Kuntz pareggia al 16°. La partita rallenta, si assopisce. La freschezza inglese non emerge e in campo esce quello che serve alla Germania: una partita lenta. Shearer e compagni hanno comunque le occasioni migliori, colpiscono un palo e Gazza arriva a un centimetro dallo spingere in rete il gol della vittoria su un pallone che attraversa l’area piccola, mettendo Andreas Kopke totalmente fuori causa. Si va ai rigori. Segnano tutti tranne Gareth Southgate. Andy Moller spinge i tedeschi in finale con l’ultimo tiro dal dischetto.

Nella finalissima la Germania si trova di fronte la sorpendente Repubblica Ceca; c’è anche l’Italia, con la terna arbitrale, si direbbe sui giornali seri, ma l’Italia, quella vera, è rientrata da un pezzo, e poco importa che sia Pairetto che Casiraghi di nome facciano Pierluigi. Dusan Uhrin, il selezionatore della Repubblica Ceca, ha messo in piedi una squadra giovane e tosta. In mezzo al campo c’è molto talento e Pavel Nedved emerge per la prima volta agli occhi del mondo. Il futuro pallone d’oro parte dalla destra di un centrocampo a quattro che conta anche su Patrick Berger e Jiri Memec oltre a Radek Bejbl, giustiziere degli azzurri. Davanti il grosso Pavel Kuka è affiancato da Karel Poborsky. Dopo aver buttato fuori gli azzurri i cechi hanno eliminato il Portogallo proprio con un gol di Poborsky, nella ripresa. In semifinale è toccato alla Francia dai piedi buoni, sconfitta ai rigori dopo il sesto tiro (tutti segnati fino a quel momento) sbagliato da Reynald Pedros. Al 58° Berger sblocca anche la finale in favore dei suoi, proprio su calcio di rigore. All’esordio degli europei la nuova nazione, nata il 1° gennaio del 1993 dalla divisione con la Slovacchia, aveva perso proprio con la Germania (2-0) ma non sembra avere alcun timore reverenziale, né pare subisca la pressione dell’incontro e del blasonato avversario.

I cechi tengono in pugno la partita dando spesso l’impressione di poterla portare a casa senza troppo affanno. A venti minuti dalla fine Berti Vogts sostituisce Mehmet Scholl per inserire Oliver Biehroff che entra come terza punta al fianco del capitano, Jurgen Klinsmann, e di Kuntz. Passano giusto tre minuti e Bierhoff taglia bene dietro la difesa su una punizione calciata ad effetto che vola al centro dell’area per arrivare sul secondo palo. Bierhoff lascia il suo numero di telefono al suo marcatore e spunta a un metro dalla porta. Colpo di testa e gol. Petr Kouba non ha nemmeno il tempo di reagire. Supplementari. Di nuovo. Ma stavolta bastano solo cinque minuti.

Ancora Bierhoff controlla un pallone in area, si gira e lo calcia abbastanza centrale. Un difensore sfiora la sfera che schizza in modo strano e sorprende Kouba, che si trova un pallone avvelenato sui guantoni. Forse lo sottovaluta, certamente non ci arriva bene e con poca decisione. La deviazione del suo compagno ha dato al pallone un effetto strano; la sfera schizza sui guanti di Kouba e finisce nell’angolino alla sinistra del portiere. Ed eccolo lì, che si materializza, per la prima volta, il maledetto Golden Goal. Una delle peggiori modifiche regolamentari di sempre diventa fatto concreto e vale un titolo europeo, trasformando Oliver Bierhoff, di mestiere attaccante dell’Udinese, nel salvatore della patria. La Germania è campione d’Europa per la terza volta, la prima da quando è riunificata.

Come si festeggia un gol dorato?

Come si festeggia un gol dorato?

Gli europei inglesi se ne vanno così, con un Golden Goal assurdo, dopo tre settimane di calcio che lasciarono tantissimo amaro in bocca pur portando per la prima volta, nelle nostre case, i volti di Zidanze, Nedved, Poborsky, Djorkaeff. Mathias Sammer, a fine anno, verrà eletto pallone d’oro (se vi sembra assurdo pensate al 1986 e a Igor Belanov), chiaro segnale di una stagione un po’ povera. Vinse il trofeo individuale un centrocampista roccioso, trasformato dalla storia in difensore, che giocò un europeo tutto muscoli e fatica dominando tra le retrovie. Vinse l’unico tedesco tra i convocati che in carriera poteva vantare anche 23 presenze con la Germania Orientale. Gli europei inglesi lasciarono l’amaro in bocca nonostante i campi perfetti, il clima, il tifo, l’atmosfera, le tribune attaccate al campo e God Save The Queen cantata da un’intera nazione.

Ci rimasero le ultime immagini di un Paul Gascoigne ancora in una versione più da atleta che da disperato, con la sua faccia da monello pronto a divertirsi forse più che a vincere. Terminò tre stagioni nei Glasgow Rangers prima di girovagare di nuovo tra squadre inglesi in un lento ed inesorabile declino. L’addio ai campi da calcio lo catapultò a tempo pieno nella vita del vizio e della dipendenza. Per descrivere ogni sua sbronza, ogni sua rissa, ogni suo arresto e ogni suo ricovero servirebbero mille pagine che tanti altri hanno già scritto meglio di quanto faremmo noi. A noi basta il ricordo. La memoria di una carriera folle, di un bisonte dal piede delicato e dal dribbling perfetto, di un uomo rimasto sempre bambino. I suoi scazzi con Vinnie Jones, le scenette con gli arbitri, il costante contatto con la gente, il suo vero ossigeno. Gazza sembrava vivere di questo, dell’esistenza del pubblico, dell’applauso a prescindere, dell’amore disinteressato. La carriera di Gazza, così come quell’europeo, sono state quello non avrebbero dovuto essere, sorti di coiti interrotti nel pieno dell’entusiasmo e dell’eccitazione sportiva. Alla faccia da ragazzino cafone hanno preso spazio le notizie dei tabloid, le sue menzogne, la sua malattia alcolica, il suo sperperare l’intero patrimonio per diventare quello che forse è sempre stato nel suo io, ossia un senzatetto, uno sconfitto dalla vita, un girovago senz’arte né parte un poeta (pallonaro) maledetto.

Preferiamo pensare al bambino un po’ immaturo che non ha saputo smettere di giocare nel momento giusto e non si è reso conto che l’età, prima o poi, lo avrebbe allontanato dal gioco del calcio, dai palcoscenici e dalla ricchezza. Che tutto sarebbe finito. Tranne l’amore del pubblico. Tranne la memoria del suo calcio. Tranne quella fotografia, contro la Scozia. Il sombrero che ubriaca il difensore scozzese e il tiro al volo. Il gol più bello di Paul John Gascogine, da Gateshead, Inghilterra. Per tutto il mondo semplicemente Gazza.

CAPITOLI PRECEDENTI

1 – Italia 1980, Rummenigge

2 – Francia 1984, Diavoli Rossi

3 – Germania Ovest 1988, Kieft

4 – Svezia 1992, Danish Dynamite

CAPITOLI SUCCESSIVI

6 – Euro 2000, Golden Goal

7 – Portogallo 2004, Rehhagel

8 – Euro 2008, La Rumba de Espana

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26 risposte

  1. angyair ha detto:

    Ricordiamo sempre il bellissimo goal di Poborsky contro il Portogallo: https://www.youtube.com/watch?v=5T5Dy5kM7uk

  2. azazelli ha detto:

    Il bar a Genova!!
    Prima o poi scopriremo chi ha vinto il pallone d’oro nel 1986…..ma una mezza idea ce la siamo fatta 😀

  3. mlbarza ha detto:

    Per onor di precisione, il povero e mitico Ayrton è morto a Imola, non a Monza.

    Per il resto, a parte lo schifo Sacchiano, l’immagine di quell’europeo è la forza dirompente della gioventù della Repubblica Ceca. Penso che all’epoca molti pensarono che quella nazionale fosse destinata a lasciare il segno, quando invece di quel gruppo si finisce col ricordare solo la grandissima carriera di Nedved, mentre praticamente tutti gli altri non mantennero le attese. Tranne Poborsky. Il 5 Maggio di Poborsky. Maledetto Poborsky

  4. therussianrocket ha detto:

    Grande pezzo China. E grande Karel Poborsky, idolo assoluto.

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